Arte contemporanea cinese e tibetana

Cina

La riformulazione del linguaggio artistico per le masse, non più solo per i letterati, incomincia a nascere con l’inaugurazione dell’accademia d’arte “Lu Xun” nello Shaanxi (Shǎnxi)nel 1938. Nel 1942, poi, Mao Zedong precisò che l’arte doveva essere al servizio della politica e che gli artisti dovevano evitare la rappresentazione troppo diretta della realtà, il sentimentalismo e la satira. Nasce l’associazione degli artisti supervisionata da Xu Beihong.

Xu Beihong (1895): sentiva il bisogno di riformare l’arte
cinese amalgamandola con gli elementi occidentali (in Europa assimila infatti
la ritrattistica occidentale). Nella figura qui sotto, Yu Gong rimuove la
montagna, lo stile è preso ad esempio per le nuove direttive sull’arte cinese:
i soggetti della cultura popolare (dipinti dell’anno nuovo, acquarelli,
xilografie) erano gli unici ammessi e andavano appresi fra il popolo (nelle
zone rurali). La tecnica occidentale viene adottata perché rendeva meglio il
realismo socialista.

Lin Fengmian (1900): Dipinge “Quattro beltà” venendo additato come artista che fa arte antica, decadente.

Alcuni riuscirono a mediare fra arte occidentale (stile e tecnica) e orientale (soggetti e sfondi), fra questi Chen Yifei (1946), che fa
La presa del palazzo presidenziale, opera prima criticata perché troppo
realistica (a causa della fatica sulle espressioni dei soldati e delle loro
giacche strappate) ma che poi viene rivalutata, vista l’impossibilità di cancellare
la pittura classica guohua che fu impiegata per i dettami del partito. Fu vietato dipingere soggetti antichi (bambù, paesaggi, fiori e uccelli) perché troppo intimisti e lontani dalle
masse. Ma il simbolismo antico fu usato per il simbolismo moderno socialista.

Shi Lu (1919): (nome preso dal pittore Shi Tao e dal letterato Lu
Xun) in Combattendo nello Shaanxi  (Shǎnxi) settentrionale,
ritrae la marcia comunista per Pechino in modo realista ma con sfondo tipico
dell’epoca Song. L’avanzamento delle truppe è segnato dal colore rosso.
Diversamente dai dipinti tradizionali qui la figura umana (Mao) spicca fra la
natura, ma la linea dei picchi guida l’occhio del fruitore verso Mao come
accadeva nella pittura tradizionale. Il Mao pensieroso in seguito fu visto come
troppo distaccato dalle masse e Shi Lu cadde in disgrazia.

Con il Grande balzo in avanti gli artisti sono mandati nelle
campagne o nelle fornaci a lavorare per stare a stretto contatto con il popolo.
I quadri che ne escono fuori sono utopici perché frutto dell’esasperazione.
Zhou Enlai nel 1961 riabilitò gli artisti ad esprimersi liberamente
riabilitando anche la pittura del paesaggio riconoscendo anche Lin Fengmian,
che però a fine anni ’70 lasciò la Cina. Poco dopo, nel 1964, Mao richiamò
all’ordine dei principi socialisti e rispedì gli artisti a lavorare nelle
campagne per stare a contatto con la realtà dipingendo i soggetti dell’anno
nuovo o i contadini carichi di messi o opere di ingegneria come fecero Sun
Guoqi e Zhang Hongzhan nel 1973 dipingendo insieme Costruzione del canale di
irrigazione, opera ingegneristica nel Liaoning, dove figurano squadre di operai
e contadini intenti alla costruzione. Fu fatta pressione per denunciare i
presunti oppositori del Partito. Verso il 1975 l’arte cinese fu ristretta alla
propaganda coatta della figura di Mao in qualsiasi forma, figura diventata
idolo e santo: avviene il culto della personalità di Mao che appare ritratto
giovane in quadri riportanti scritte di buona prosperità da parte del
timoniere). Questo realismo aveva sapore fotografico, con volti illuminati, ben
nutriti, e sempre sorridenti. In questo periodo emergono alla luce reperti
antichi come quelli dell’esercito di terracotta (1974) che vengono utilizzati
come propaganda di un passato glorioso ma di una società gerarchizzata da cui
la Cina si era liberata e quindi i reperti iniziarono a fare il giro del mondo
dando il via a contatto formali con i maggiori paesi. Molti artisti scelsero
anche di scappare dalla Cina per avere più libertà d’espressione.

Nel 1976 inizia la fase di dissenso a causa della morte di
Mao Zedong e Zhou Enlai e l’arresto della banda dei 4. Con la fine della
rivoluzione culturale si ha la riapertura alle scuole d’arte e la
riabilitazione degli artisti caduti in disgrazia. Nel 1979 avviene la Mostra
Nazionale d’arte a Pechino. Nasce la fase di dissidenza e di sperimentalismo
artistico che perdura fino ad oggi. Fra i gruppi di artisti il Xingxing (anche
detto Star) spiccò per la sfida contro le autorità, infatti non essendo stati
ammessi ad esporre le opere nella Galleria di Pechino, le appesero nella
cancellata nel retro della galleria. Fra queste opere quella che colpì di più è
“Silenzio” di Wang Keping, una scultura su legno figurante un volto con bocca
ed occhi chiusi dal governo. Gli Star volevano la libertà d’espressione e la
adottarono anche attraverso il rifiuto dello stile realistico  socialista e all’adottamento delle tecniche occidentali. In seguito gli Star furono ammessi nella galleria. “Idolo” di Wang Keping è una scultura in legno di Mao con il colbacco e il viso allungato e con
guance caduche (tipo Buddha) che stilizzano quelle di un’opera che si riferisce
alla divinità della longevità, Shou Lao. Si riferisce alle immagini di Mao
diffuse precedentemente, quelle che ne facevano un idolo. Lo stile e il materiale sono ridiscussione dell’arte realista  socialista che ne fa un’opera anticipatrice di opere simili in futuro.

Luo Zhongli: in “Padre” raffigura un contadino tibetano trattato con l’esasperato realismo che aveva contraddistinto le opere celebranti i successi della rivoluzione.

Deng Xiaoping nel 1978 votò per abolire la libertà
d’espressione ma con meno rigidità, Le Stelle si sciolsero e lasciarono il
paese (prima Ai Wei Wei, poi Desheng, Huang Rui e Shao Fei) scoprendo nuovi
universi artistici: l’occidente scoprì una nuova Cina attraverso i lavori di
chi era evaso. Il vuoto lasciato dalle Stelle fu colmato da gruppi come “Nuova
corrente artistica del 1985”, e correnti in generale assetate dal
precedentemente impossibile sperimentalismo (perché proibito o sconosciuto). In
questo clima nacquero opere sulla storia recente fra cui quella di Wang Guangyi
a cui si devono derivazioni del ritratto di Mao con sbarre e quadri sovrapposti
che invece di trasformare Mao in un ironico idolo ne criticava sia l’immagine
che la strumentalizzazione delle sue immagini come propaganda. In passato la
calligrafia si era svuotata come anche la pittura a causa della ripetizione degli slogan.

Gu Wenda: apprese stili e tecniche tradizionali fra cui la
scrittura sigillare. La quasi impossibilità di decifrare la scrittura sigillare
unita alla nuova nascita dei caratteri semplificati lo portò ad inventare una
nuova scrittura basata sui caratteri  sigillari, di creare una scrittura svincolata dal significato. Da questo studio nasce “Il mito delle dinastie perdute” , che esplora la perdita di senso della scrittura.

Xu Bing: si è interamente dedicato alla formazione di una
scrittura nuova a causa del rovesciamento delle fondamenta culturali portate
dalla scrittura semplificata, in più scoprì che la maggior parte dei libri
erano proibiti. Quindi nel 1987 si rinchiuse per mesi inventando 1250 caratteri
cinesi senza senso ma basati sui radicali reali, conosciuti, intagliandoli nel
legno e stampandoli in una serie di libri in formato tradizionale e in una
serie di rotoli di carta verticali. L’opera fu esposta nella Galleria d’Arte
cinese e fu intitolata “Una analitica riflessione sul mondo: l’ultimo libro del
secolo”, produsse frustrazione verso chi poteva solitamente leggere: l’opera
era la denuncia anche dell’impoverimento semantico in cui era stata portata la
scrittura durante gli anni di propaganda. Il titolo fu poi cambiato in Tian Shu
(Libro celeste), come se fosse venuto dal cielo e fosse per questo incomprensibile.

Nel 1989 ci si preparava ad esporre opere artistiche
dell’ultimo decennio, per la prima volta si esponevano nuovi stili e nuovi modi
di fare arte fra cui la performance, l’esibizione.  Fra gli artisti Xiao Lu concluse l’esibizione
sparando con la pistola contro la sua opera, “Dialogo”. Con la morte di Hu
Yaobang, che si era mostrato più vicino alle richieste di libertà, molti
giovani protestarono per più libertà, fra questi a Piazza Tian’anmen,
l’esposizione di una statua in vetroresina rappresentante la dea della
democrazia ricostruita a pezzi nella piazza dove fu presto distrutta.

L’arte tradizionale viene rivisitata e reinterpretata, l’apertura
verso il mondo è accompagnata da una riscoperta della tradizione abbandonata in
epoca maoista. Fra queste opere (a caratteri passati e presenti) ci sono
rivisitazioni dell’immagine di Mao e rivisitazioni di calligrafie, le prime più
conosciute per la più facile comprensione.

La rivisitazione di Mao: fra le rappresentazioni di Mao
figura la corrente “Mao-pop” che utilizza ritratti di Mao caratterizzati da
forti contrasti cromatici, che riprendeva lo stile americano pop. Queste
raffigurazioni non avevano tutte sfondo politico ma spesso erano frutto di
un’iconografia martellante e monotematica che ha lasciato un forte segno nella
memoria di quegli artisti che poi offrirono la loro interpretazione di Mao come
via di uscita dal coro caratterizzante l’epoca maoista.

Li Shan è uno dei ritrattisti e revisionisti dell’immagine
di Mao. In “Rosso-fiore” ritrae Mao traendo spunto dai manifesti diffusi
durante la Rivoluzione Culturale nei quali Mao è raffigurato in giovane età, ma
ne accentua i caratteri effemminati assottigliando le sopracciglia,
rimodellando le labbra ed aggiungendo un fiore di loto in bocca, rivisitazione
che può avere varie interpretazioni.

Zhang Hongtu: riprende le rivisitazioni americane di Mao in
chiave pop fatte da Andy Warhol (1972). Quelle di Zhang sono opere caposaldo
della corrente Mao pop. Fra queste “Lunga vita al presidente Mao” che pone la
faccia di Mao nei barattoli dei fiochi d’avena, visione che ebbe l’artista un
giorno aprendo l’armadio dei fiocchi. Questa visione spiega l’ossessione di
molti artisti per la figura di Mao. Attraverso l’immagine di Mao, Zhang cerca
di esorcizzare, allontanare quei fantasmi della Rivoluzione Culturale. Ne è
esempio anche Ping-Pong Mao. Lo spazio ritagliato dove dovrebbe stare la figura
di Mao dice che egli è ancora una presenza visibile nonostante gli anni
passati, soprattutto nell’immaginario dei cinesi dell’epoca. Zhang ha creato
una serie di opere con la sagoma vuota di Mao, forse il vuoto della sagoma è
quello difficilmente colmabile lasciato da Mao.

Xue Song: in “Forma (Mao rosso)”, segue lo stesso concetto
di sagoma mancante di Mao, è un collage in cui la sagoma di Mao è riempita con
i ritagli di fumetti dell’epoca maoista (celebranti il fasto della rivoluzione)
e lo sfondo riempito di caratteri rovesciati (l apiù alta forma artistica per
Xue Song).

Sui Jian’guo: ha fatto una serie di 10 sculture di giacche
maoiste “The shadow of the century”, idea ripresa anche in “Legacy mantle (Mao
Jacket)”. Qui riaffiorano il vuoto e il pieno: nelle giacche è l’assenza a
definire la forma, come se il corpo fosse ancora lì dentro, gli involucri
restano contenitori svuotati del significato ma ancora capaci di proiettare un
ombra sulla società cinese. C’è un culto delle reliquie di Mao e quest’opera
sembra ironizzare su questo. In “A complet set of zodiac figures in Tang
Dynasty three color glaze ceramic style” riprende la tradizione Tang di
raffigurare lo zodiaco ma facendo indossare alle figurine la giacca maoista
invece che gli abiti dei dignitari di corte, attualizzandoli alla storia. Fa
confezioni per hamburger in stile bronzi Zhou, e una bottiglia di porcellana a
motivi tradizionali ma a forma di Coca Cola.

Il riferimento di Zhang Gongtu a famosi marchi commerciali
si trova nel filone dell’arte contemporanea che dagli anno ’90 critica la
società consumistica cinese nata da Deng Xiaoping.

Fra gli artisti di questa corrente Wang Guangyi è fra i
primi che dipinge pitture ad olio dove sono accostate iconografie dell’arte
socialista di propaganda a famosi marche commerciali, dove i nuovi slogano
commerciali sostituiscono quelli di propaganda e dove i beni di consumo
sostituiscono i traguardi i traguardi del socialismo. Lo slogan “guardare
avanti” con un gioco di parole sostituiva 前 (avanti) a 钱
(soldi) e quindi fu mutato in “guardare verso il denaro” rischiando che il
comunismo cancelli la memorie del recente passato.

Ai Wei Wei: è uno dei fondatori dei Xingxing (Le Stelle). Con
“Han dynasty urn with Coca Cola logo” fa perdere l’identità di un antico
manufatto Han aggiungendoci il logo e così dicendo che il consumismo mette a
rischio la sopravvivenza della stessa identità culturale cinese che rischia una
nuova omologazione non ideologica ma di mercificazione. Stesso concetto in “Whitewash”
in cui si cancella l’identità di alcune anfore Majiayao (3000 a.C.).

Xu Yuhui: in “Ragazzo che legge il libretto di Mao” evoca i
ricordi d’infanzia del periodo, memoria personale che omette gli episodi
tragici. L’immagine su porcellana del ragazzo evoca, attraverso il libretto
rosso e la modalità policroma e di immagine, le statue di Mao prodotte per uso
domestico, a modo di altarino. Anche qui è l’assenza di Mao a richiamarlo alla
memoria, nonostante l’artista lo abbia conosciuto indirettamente attraverso i
racconti e che comunque ha una certa influenza su di lui e la sua generazione.

Xin Danwen: nella fotografia “Nato con la Rivoluzione
Culturale” vi è una donna incinta di un bambino che nascerà in una società
post-maoista dedita al consumismo, fonte ideale tra generazione di Mao e quella
futura. La bandiera è il frammento di un’ideologia passata.

Liang Xiqin (1973): la bandiera è l’ideologia recuperabile solo dal singolo in una società  dove non più la collettività, ma l’individualismo, prevale su tutto.

Wang Qingsong (1966): si ispira al “Monumento degli eroi del
popolo” a Piazza Tian’anmen ai cui tre rilievi dà il nome di
Passato-Presente-Futuro riflettendo sulla direzione presa dalla massa in epoca
dei grandi mutamenti. In Passato l’artista è un soldato ferito che contempla il
monumento raffigurante l’esercito di liberazione ricoperto di fango, in
Presente Wang è un contadino della Cina odierna che osserva lavoratori,
studenti e intellettuali coperti di colore argento, in Futuro non c’è un
osservatore esterno e Wang sta fra i contadini e la gente comune, tutti dorati.

Cai Guo Qiang (1957): in “Silk road” su un telone di seta
bianca, dove il bianco è colore di lutto, ha ricamato cinque episodi di
distruzione della cultura (rogo dei libri del primo imperatore cinese, rogo dei
libri del nazismo, occupazione dell’università di Tokio del 1969, distruzione
di un pianoforte e demolizione di un tempio cinese), eventi che non hanno
impedito al corso della storia di andare avanti. Il costruirsi della storia è
simboleggiato da bachi da seta poggiati su un libro.

La calligrafia nella contemporaneità:

nel 1900 la calligrafia ha iniziato ad essere considerata svincolata dal significato per diventare libera e personale espressione del segno, vicina all’arte astratta.

Xu Bing: in “Square world calligraphy” tenta di
demistificare la calligrafia cinese agli occhi occidentali. In questo alfabeto
c’è l’unione di quello occidentale con le norme di composizione dei caratteri
cinesi trasformando le lettere in segni grafici e le parole compresse a modo di
carattere-parola. Per Xu doveva servire agli occidentali per familiarizzare con
la scrittura cinese, chi partecipava alle installazioni interattive seguiva le
istruzioni sui video dell’artista.

Qiu Zhijie: ha contestato i principi tradizionali di
insegnamento della calligrafia basati o sulla copiatura ripetitiva dei
capolavori del passato. In “Composito 1: copiare la prefazione al Padiglione
delle Orchidee per 1000 volte”, dove il Padiglione è una prefazione del IV
secolo di Wang Xizhi, il più grande calligrafo di tutti i tempi. Qiu si filmò
mentre ricopiava per mille volte la Prefazione sullo stesso foglio: così Qin
sottolinea come attraverso la nauseante copiatura, l’originale stesso venga
obliterato, cancellato fino a perdere il proprio spirito, che invece è
l’intento tradizionale della copiatura, cogliere lo spirito di un’opera eccelsa.

Gu Gan (Zhang Shiqian):  crede che un’opera calligrafica deve comunicare altri valori estetici sinteticamente in pochi caratteri e tratti. In “Il cuore della Cina” le quattro
macchie d’inchiostro costituiscono il carattere 心 (cuore) al centro del quale c’è, in rosso (colore per i sigilli), l’immagine di Buddha. Così si  scrolla di dosso le regole tradizionali per la forma ed il colore.

Wang Donglin: in “Un foro non è un foro” tende anche lui a
scrollarsi di dosso le tecniche tradizionali per abbracciare quelle occidentali
fondendole con la tradizione. Dal modernismo ha derivato lo svincolo dalle
regidità dei caratteri. I suoi sono dipinti zen sui quali ci si può fermare in
meditazione cogliendo il qi (lo spirito) che li anima.

Tang Yang: (di Taiwan) si è buttata nella tradizione rivitalizzandola senza l’aiuto di correnti occidentali creando uno stile nuovoe basandosi sull’antico stile calligrafico “corsivo folle” ideato da Huaisu in epoca Tang, stile incentrato sull’abbreviazione dei caratteri e l’unione dei tratti facendoli apparire quasi in linea continua. Usa questa grafia per riscrivere testi tradizionali cinesi dando all’opera il titolo della citazione.
Qui è “Una giornata trascorsa bene è benedetta”.

Qin Feng: potenti pennellate di inchiostro lasciato spesso
su superfici gigantesche, il bilanciamento vuoto-pieno porta a riflessioni
taoiste. In “Civilization landscape” il rotolo verticale assume la tradizionale
forma a paravento, la calligrafia pittorica  o pittura calligrafata diventa installazione, pittura di paesaggio, scultura e parla un linguaggio internazionale.

Cheng Guangwu: in un’opera senza titolo indaga la
possibilità offerta dalla calligrafia nella contemporaneità, sovrascrivendo i
tratti non leggibili ma rispettando un ordine ed un’eleganza armonica tra pieno
e vuoto, sono caratteri che vanno dall’alto in basso e da destra a sinistra.

Chen Chikuan: (taiwanese) in “American football” l’andamento a zigzag sembra quello di un Pallone sul campo.

Xu Bing: in “The living world” dà espressione alla liberazione del segno calligrafico dai rigidi dettami tradizionali acquisendo  nuovo linguaggio semantico. Il carattere 鸟 (uccello) prende il volo fuggendo dalla gabbia della carta e tornando simbolo, cioè pittogramma, non stilizzato dai secoli di storia.

Paesaggio: tradizionalmente il paesaggio è luogo ideale della mente, dove la natura viene caricata di suggestioni simboliche, filosofiche e letterarie.

Jia Youfu: in “I monti Taihang” crea una rappresentazione di rilievi fra Hebei e Shaanxi  (Shǎnxi) per motivi patriottici, perché lì i cinesi sconfissero i giapponesi. L’iscrizione non
segue la posizione tradizionale ma sta in alto.

Lang Jingshan: è uno dei padri della fotografia cinese, sviluppò un tipo di fotografia composita ispirata alla pittura del paesaggio cinese, partendo da immagini di luoghi ideali, ne elimina il piano intermedio dissolvendo un una sorta di nebbia. Ne risulta un immagine che sembra un dipinto. Nella figura sottostante si riferisce ai paesaggi tradizionalmente associati alle dimore degli immortali, il sigillo dà un ulteriore tocco di pittorietà.

Han Lei:  fa fotografie con taglio che si rifà ai moduli pittorici tradizionali delle Cinque
dinastie (X sec.) e dei Song Meridionali (XII-XIII sec.), cioè con formato
quadrato (fogli di album) o circolare (ventagli) attraverso la sapiente scelta
dell’inquadratura.

Liu Wei: in “It looks like a landscape” si riferisce ad un luogo esistente (non fantastico come i precedenti), Guilin, attraverso la foto di parti di corpi umani composti a formare il famoso paesaggio che viene antropomorfizzato in conformità all’abitudine cinese di dare nomi e volti alle conformazioni naturali.

Zhang Wang: riprendendo la composizione tradizionale dei
giardini nelle ricostruzioni dei panorami naturali, applica alle sculture
naturali in pietra delle lamina d’acciaio ottenendone dei calchi come versione
moderna dell’antica tradizione riproponendo in chiave moderna gli oggetti di
arredamento delle case dei letterati e criticando i mutamenti che hanno
sconvolto l’aspetto delle metropoli.

Liu Jianhua: anche lui realizza manufatti artificiali
partendo da prototipi naturali. In “Memory transformations” crea calchi di
porcellana da tronchi di albero, denuncia alla restaurazione di Jingdezhen nel
XIX secolo, luogo di produzione della migliore porcellana in Cina.

Chen Zhen: in “Le produit naturel, le produit artificiel”, comprime 1400 rose rosse di plastica su uno strato di sterco, il tutto è compresso sì da assumere la forma di un’antica stele in pietra. L’artificiale attira, il naturale allontana. Collocò uno specchio al centro della scultura che rispecchiava l’atteggiamento privato nel mondo odierno per il prodotto
naturale. In “Jardin Memorable” ci sono dei pannelli in bronzo poggiati su dei
grandi leggii e che recano vedute di giardini con padiglioni e residenze in
bassorilievo, è il trionfo del classicismo dalla tecnica al soggetto, la natura
addomesticata nel giardino, ciò che dovremmo costruire invece di distruggere. In
“Il sacrificio nel pozzo del cielo” colloca dei campioni di rifiuti prodotti
dalla società moderna: su tutto domina il bianco, colore di lutto. Si riferisce
alla struttura tradizionale delle cose cinese disposte intorno ad una corte
centrale (tianjin) che convogliava le acque ma aveva anche funzione rituale. Per
Chen questo rapporto è rotto e lo spazio vuoto è riempito dai rifiuti, dalla morte.

Richard Long: in “Esagramma” raffigura uno degli esagrammi
dell’Yijing, il pozzo, come il pozzo casalingo da cui si ricava la sussistenza.
Le linee dell’esagramma sono nette ma sprizzano schizzi da ogni parte a
ricordarci che le linee dell’esagramma sono fisse solo apparentemente.

Cai Guo Qiang: il più grandioso happening che abbia mai
realizzato un artista contemporaneo cinese è un’installazione effimera sulla
Grande Muraglia dove posò una miccia di 10 km con sacchi di esplosivo in alcuni punti.

Xu Bing: “Ghost pounding the wall” è il calco di una sezione
della muraglia cinese. Nel 1989 il giornale governativo criticava l’opera
Tianshu chiamandola “Muro costruito da un fantasma”, così Xu Bing chiamò il
calco della muraglia “Ghost pounding the wall” dove “ghost” stava anche per i
così chiamati fantasmi antirivoluzionari della Rivoluzione Culturale. Accusato di
essere un antirivoluzionario scappò in America dove espose l’opera.

Zhang Linhai: in “Grande muraglia” ritrae ad olio una serie
di bambini tutti uguali con testa volta opposta al fruitore dove finisce la
fila di bambini. Zhang non spiega l’opera che potrebbe denunciare una società
massificata in cui l’individuo viene omologato fino a fargli perdere l’identità
e diventa solo uno dei mattoni dell’edificio sociale cui appartiene.

Wang Shugong: in “Sweepers” rappresenta un gruppo di
sculture uguali raffiguranti monaci buddisti che spazzano, dove l’uniformazione
e l’atto ripetitivo servono a far perdere l’io psicologico e a raggiungere l’illuminazione.

Li Cheng: ha cercato modalità espressiva che potesse dar
vita ad immagini svincolate dai canoni dell’iconografia classica e dalla
frontalità. Dà vita a sculture di Buddha e bodhisattva tridimensionali, tondi e
pieni, con tratti quasi infantili. In “Pure land” si allude alla terra pura,
immagine serena e di distaccato riposo del nirvana.

Chen Zhen: “50 strokes to each” si rifà ad un detto buddista
secondo il quale il modo migliore in cui due persone possano evitare I conflitti
è che si diano cinquanta colpi sul fondoschiena. Il detto è qui trasformato in
installazione sonora: sedie e letti sono trasformati in tamburi che il pubblico
può suonare per scaricarsi. “Un-interrupted voice” è una serie di strumenti a
percussione ricavati da sedie, tavoli, letti, vasche da bagno. In “Biblioteque
musicale” gli strumenti sono ricavati da vasi da notte che rievocano le campane
di bronzo preimperiali e suonate nella corte. Ma il vaso è un richiamo all’igiene:
tenendo puliti sé stessi (dalla rabbia) si tiene pulito il mondo. “L’Autel du
ciel” è pensata per essere esposta in Corea dove la tecnologia sta seppellendo
la spiritualità naturale, l’armonia uomo-natura. Le scritte scolpite dicono di
ascoltare e parlare al cielo, di non rimanere intrappolati nei prodotti
commerciali ed industriali che rendono l’uomo schiavo. La cella è quadrata
(come simbolo cinese della terra), i soffitto è circolare (il cielo) e l’uomo
si trova fra i due imprigionato dai suoi prodotti.

Zhang Hongzhi: in “Flying blues”, sbarazzandosi dei fantasmi
della rivoluzione e di Mao, torna al simbolismo arcaico di quadrato e cerchio
capovolgendoli, il cerchio per terra e il quadrato (un telo che ha il simbolo
della bussola e dei quattro punti cardinali) sul soffitto.  In mezzo delle piume. Il cielo è creato con
sabbia colorata come i mandala tibetani.

Ju Ming: in “Taiji” mostra sculture in atto di fare taijiquan con cui si percepisce il qi (lo spirito vitale). Sono fatte di bronzo e legno ma risultano leggere nella forma. Nella scultura è tradotto il punto di arrivo del calligrafico nell’eliminazione
della residenza attraverso l’esercizio continuo.

Tibet

C’è una certa sterilità nell’arte tibetana di adesso. La diasporica comunità tibetana si vede come la perpetuatrice dell’eredità del suo luogo abbandonato e la custode di una vera immagine del Tibet. Durante i ’70-’80 i monasteri furono ricostruiti principalmente per il turismo riammesso in Tibet dall’85. Il popolo tibetano è stato minacciato con l’estinsione dalla partenza del Dalai Lama, i tibetani sono stati costretti a rinunciare alla loro
fede nel buddismo tibetano. Gli artisti, gli scrittori e i religiosi, in prima
linea con la cultura tibetana, sono scapapti dal paese. I colonizzatori
vogliono estinguere tutte le tracce di ciò che significava essere tibetani, ma
il loro attentato non è riuscito perché la cultura non sta solo negli edifici e
negli artefatti ma comprende molte attività, in questo senso la cultura
tibetana si è estinta nel ’59. Ma l’idea di Tibet esiste nell’immaginazione.
C’è l’immaginazione cinese di Tibet, una occidentale, una degli sfollati
tibetani e una dei tibetani ancora in Tibet (TAR, Tibetan Atonomous Region).
Anche a Lhasa il made in Tibet è un misto di ciò che è creato per i turisti,
ciò che è fatto per la politica colonizzatrice e ciò che è creato in generale.
Una volta assorbito nella Cina il Tibet esiste come minoranza etnica, in India
i tibetani sono stati marginalizzati ancor più. Gli antichi oggetti tibetani
evocanti il passato dominano  l’immagine
occidentale di Tibet ponendo il paese inun perpetuo passato e negando una
contemporaneità dell’arte tibetana. La dispersione dell’arte tibetana nel
mercato occidentale era prima un sottoprodotto dell’esilio e poi un risultato
dell’attrazione per le cose tibetane di casa e dei monasteri del Tibet
controllato dai cinesi. Ciò che è tibetano è immaginato in opposizione alla
Cina e al maoismo.

I tibetani nati dopo l’invasione maoista hanno sperimentato
condizioni sociali, politiche e culturali diverse dai tibetani pre 1959 o dagli
esiliati. In Tibet i tibetani post ’59 sono stati educati con la cultura
cinese, la lingua cinese e i tibetani hanno imparato a dipingere copiando i
ritratti di Mao. Negli ’80 istituzioni come l’università di Lhasa le scuole
d’arte assunsero lezioni cinesi il cui insegnamento rifletteva le diverse
pratiche artistiche venute alla conoscenza attraverso la Cina che rimasero incatenate
dal realismo socialista attraverso la pittura tradizionale cinese influenzata
dal modernismo occidentale e i tibetani producevano arte sotto il comando
cinese. I tibetani vennero nella pittura sotto il regno del realismo
socialista. Gli artisti cinesi dipingevano il processo da cui loro divennero
eroi maoisti battendo forze di elementi combinati e feudalismo. Divennero anche
produttori di immagini sull’elogio del leader della repubblica popolare. Un
metodo collaborativo andava di pari passo con l’idea di solidarietà della
repubblica, questo contrastava con l’arte tibetana pre ’59 dove i pittori erano
organizzati secondo una gerarchia di maestri. L’arte tibetana pre ’59 era
raramente usata per narrare o commentare eventi politici. Nei ’70 artisti tibetani
collaborarono con i cinesi per produrre un realismo socialista sino-tibetano,
un tipo di pittura adatta a portare messaggi politici. La scuola Kanze era il
progetto comune di Mis Ting Kha’e (Ting Ke?), un’artista cinese han, e Rigzin
Namgyal, un tibetano, fondato con la meta specifica di stabilire una nuova arte
tibetana. L’intenzione propagandistica dietro questo nuovo stile di pittura è
chiaro nel dipinto dell’incontro fra il monaco tibetano Getag Tulku e il
generale cinese Chu Te a Beri, monastero di Kanze, nel ’36. Questo
dipinto celebra l’ospitalità del monaco in questione verso il generale e le
truppe, ricorda l’inizio delle relazioni fra due figure di potere. La
determinazione del tibetano in questo contesto conta sull’etnicità di uno dei
pittori. Verso i ’50 c’è stata una campagna cinese nell’includere le minoranze
etniche nella repubblica e nel caso tibetano ciò è stato effettuato attraverso
l’incurisone fisica e ideologica. Rigzin Namgyal èuno dei primi tibetani a
subire questa influenza maoista. La scuola Kanze da lui cofondata era
supportata dalla scuola artistica sichuanese che promuoveva le opere dei
tibetani che enfatizzavano la loro assimilazione nella nuova Cina. Rigzin
Namgyal rientrava anche nel programma cinese che prevedeva l’assimilazione
completa dei tibetani ai cinesi in ogni aspetto culturale. The meeting of the
general and the monk combina il fotografico relismo socialista con motivi
portati dalla pittura religiosa tibetana (nell’alone usato nei thanga –figure
sacre-). Nella figura il trono, la scala fra le due figure e l’alone sono unità
unificanti che per i tibetani sono simboli sacri. Nel gesto con la mano come a
spiegare qualcosa si vuole eclissare l’unità religiosa sotto quella politica.
Altri elementi tibetani sono il portico con le colonne e trave della veranda
monastica, così accurati che devono derivare da un thanga. Il dipinto, come
altri della scuola Kanze, serve solo  a
illustrare l’atteggiamento paternalistico verso le minoranze in modo
benevolente ma fermo. La vita narrativa di adetti yogici e santi buddisti come
Milarepa e Padmasambhava, presenti nei thanga pre ’59 vennero banditi dagli
stessi giovani artisti tibetani. Le uniche volte in cui appariva una figura
sacra della cultura tibetana era per sottolinearne l’inferiorità alla Cina.
Yeshi Sherab e Lobsang Sheran hanno dipinto l’incontro del capo mongolo Godan,
il Khan, e il monaco tibetano Sakya Pandita nello stile realista. Come
in The meeting of the general and the monk c’è uno scenario central a mandorla
che funge da proscenio ad arco, tutta una pompa per ricordare al fruitore il
momento in cui Sakya Pandita si arrese al dominio mongolo che doveva proteggere
il buddismo tibetano. Chiaramente i capi cinesi desideravano fare paralleli fra
questo evento e il loro comando sul Tibet. Entrambi i quadri attraverso la
storia negano al Tibet ogni tipo di indipendenza. Antichi dipindi ritraenti il
matrimonio fra il primo re tibetano Songtsen Gampo e la principessa cinese
Wencheng sono stati pubblicati con la propaganda che implica che la Cina è
sempre stata in Tibet. Nei ’70 il tibetano Jampa Sang ha basato un intera
composizione ritrando la vita secolare in Tibet attraverso diagrammi di
importanti buddisti tibetani come nel mandala. Il mandala
tradizionalmente è la dimora di una divinità, ma la composizione di Jampa
prende la struttura del mandala con tanto di porte in punti cardinali ponendoci
al centro figure umane ed animali al posto della divinità (donne fra cui una
che munge uno yak), compiendo sacrilegio agli occhi dei tibetani
tradizionalisti. Le donne qui ritratte che fanno del burro intorno alla
mungitrice assumono pose attraenti nello stile delle pitture cinesi; le
attività artigianali sono volte al miglioramento dell’economia tibetana sotto
la Cina, la felicità nella lavorazione di attività tradizionali abbraccia lo
stereotipo di etnia. Come molti artisti jampa Sang è stato influenzato da
Weaving di Hong Chang Krung che dipinge la fase finale della
produzione di tappeti in un quadro di forma mandalica. Come altre immagini
tibetane questa serve a mostrare la politica di successo della modernizzazione
in Tibet. Il quadroha il titolo cinese di Prosperity ma in tibetano apapre come
The increase of the Three: Grace, Glory and Wealth, versione che enfatizza
l’eclisse della triade buddista di parola, corpo e mente. Gli artisti tibetani
nei ’70 stavano sotto stretto controllo politico cinese: lo stile non poteva
essere usato come un determinante dell’ideologia di un artista tranne che in
casi estremi come “l’ira dei servi” e l’immagine prodotta in serie di Mao dove
forma e contesto sono fusi. Quando cinesi e tibetani lavorano insieme al cosa
si fa più complicata. Un assistente di Chen Danqing, Nawang Choedrak, doveva
avere lo stesso tipo di pittura realista socialista del collega cinese ma
entrambi affrontano diversamente i loro soggetti. In The wedding 
Choedrak evita di ritrarre gli sposini simboleggiati da due cappelli tibetani
posati su un lenzuolo bianco, ciò suggerisce che l’artista tibetano continua ad
ostacolarsi all’idea di ritrarre fratelli tibetani. Questo è il caso anche di
Tashi Tsering in Son of a serf, uno dei pochi esempi in cui un artista
tibetano si rifà allo stile realista di Chen Danqing direttamente su se stesso.
La pittura ad olio ritrae un autoritratto dell’artista assumendo il potere di
esprimere una nazionalità, etnicità, classe, religione e genere sessuale
cercando una certa libertà sul dominio cinese. Il titolo in tibetano può essere 
tradotto “figlio di un servo” o “figlio di uno schiavo”, quindi per chi vede
questo ritratto in chiave socio-realista (i cinesi) l’artista è solo figlio di
un servo e il membro di una minoranza etnica inferiore, per i tibetani il
titolo è una classificazione ironica di un eroe tibetano che controlla il
proprio destino come controlla il suo dipinto. Durante la tarda fase della
colonizzazione inglese in India, artisti come Amrita Sher-Gill utilizzarono
stili importati dal realismo e dal modernismo per fare immagini per un elite
urbana, immagini che diedero il via alla creazione di un nuovo modo di
dipingere per una nazione dipendente. Nonostante la maggioranza seguisse lo
stile pittorico importato dalal Cina alcuni non soccomberono alla
colonizzazione in modo passivo. A Lhasa i visitatori potevano comprare un libro
illustrato intitolato Tibetan Contemporary Art del ’91 che contiene dipinti di
tibetani e di cinesi dai ’50 agli ’80 in molti stili diversi, pubblicazione
sotto il controllo governativo. Questo libro era venduto in località
turistiche, probabilmente sempre nell’idea che l’etnia tibetana fosse
completamente assimilata alla han, è la prova del controllo cinese sul paese.
La serie di stili è organizzata muovendosi dagli stili semplici ed indigeni
attraverso degli ibridi e poi allo stile cinese come meta in un processo di
ascesa. I monumenti tibetani sono stati preservati solo come mete turistiche,
per dimostrare la così supposa atmosfera libera in Tibet. Ma la maggior parte
dei thanga in Tibetan contemporary art sono disegnati malamente e mostrano poca
pratica e conoscenza della costituzione dei veri mandala, sono pitture fatte da
studenti che sperano di imparare l’antico testo ma che hanno grandi difficoltà.
Il dipinto di Jampa Tseten, The 14th Dalai Lama and his tutor, che
continua a riportare uno stile realistico, stile apprezzato dal Dalai Lama
quando era ancora in Tibet ma qui la sua funzione deve celebrare la conversione
di un tibetano a codici rappresentativi cinesi collocato come se fossero le
immagini più tradizionali del Tibet. In questo dipinto vuole far pensare che
prima della rivoluzione in Tibet si era liberi di dipingere i propri capi in
una luce positiva come ha fatto il realismo, che ha permesso ai tibetani di
liberarsi dalle catene dell’estetica pre ’59 ed entrare in un nuovo mondo di
ritrattistiche e paesaggisitca. Ovviamente il libro omette la forzatura dei
tibetani nel dipingere quadri della celebrazione del trionfo dell’armata
popolare di liberazione o immagini del Dalai Lama in catene. Il dipinto di
Jampa dovrebbe simboleggiare la libertà che hanno i tibetani nel ritrarre i
loro capi, ad ogni modo come altri artisti Jampa ha avuto poca scelta. Molte
delle immagini fatte da tibetani sono devote al soggetto secolare nello stile
mimetico importato in Tibet da artisti cinesi come Chen Danqing. Confrontanto
con lavori veramente di realismo socialista, il loro realismo freddo appare
meno carico ideologicamente, riflettendo nuovi valori delle scuole d’arte in
Tibet e in Cina stessa durante gli ’80. Per la prima volta i tibetani
dipingevano i loro compaesani senza scopi elitari e non per forza su soggetti
altolocati. In contrasto le pitture pre ’59 i ritratti erano spesso a servizio
di contesti altolocati, e questo era frutto dell’importazione del realismo
socialista.  Nei dipinti di Tsang Chos si
intuisce un certo romanticismo e nostalgia come in Separation, dove un
padre si prepara al viaggio per pascolare yak in campi verdi lontano dalal
famiglia, qui l’influenza cinese suggerisce una famiglia nucleare e non
poliandrica come poteva spesso essere quella tibetana. Artisti come Tsang
adottano il realismo cinese in un modo per esorcizzare. Seguendo i discepoli di
Chen Danqing, un’altra variante dell’immagine del Tibet è portata da Han Huu Li
ispirato dall’esoticismo della cultura tibetana quando si spostò in Tibet.
Trasmise ai suoi studenti han e tibetani frammenti dell’eredità tibetana da lui
trovata per le strade del Tibet. Uno dei punti della riforma di Hu
Yaobang degli anni ’80 riferiva che i costumi, abitudini, storia e cultura
tibetani andavano rispettati. Dall’enunciamento di questa frase ci fu un
risorgimento della pratica buddista da parte dei laici e dei monaci e ci fu un
esplosione artistica da parte degli han e dei tibetani. Ritratti di persone che
praticavano la circoambulazione e che facevano offerte nei siti sacri ma anche
monaci e i loro monasteri. Anche i pittori tibetani che avevano adotatto il
realismo lo usarono per un immaginario del buddismo tibetano, ma non tanti thanga
visto ke Hu Yaobang non aveva parlato di pittura tradizionale come studio
serio. Comunque il governo se aveva dato via alla pratica buddista non aveva
menzionato altre religioni come l’islamismo. Il lavoro di un artista musulmano
fu comunque inserita in Tibetan contemporary art, l’artista è Abu che dipinse
The market, il trambusto di un mercato a Barkhor, la strada intorno a Jokhang
che fa parte del tragitto di circoambulazione buddista ma anche strada per
venditori musulmani e le loro famiglie dal 1600, comunque l’artista si allude
alle figure musulmane fra cui spicca una donna e dà preminenza alle figure
bussidte di monaci e una donna buddista con la ruota per la preghiera. Questo
dipinto prova che non importa se il soggetto sia religioso o di quale etnia sia
ma che sia approvato o meno dal governo nella visione che è stata stabilita dal
governo stesso. Il realismo continuò ad essere lo stile usato dagli han e dai
tibetani in funzione degli usi e costumi tibetani sul modello di Yaobang di
modo che seguissero modelli utili per il prossimo arrivo del turismo (’85). La
nascita di questa industria era un imperativo finanziario non ignorabile e a
cui gli artisti risposero con una visione romantica di un Tibet buddista. L’ascesa
di Deng Xiaoping nel ’78 annunciava l’arrivo di un era di economia ed ideologie
nuove. Il Tibet non era esentato dalla politica consumistica con centinaia di
han che arrivarono in Tibet per far business. I nuovi soggetti centrali erano
vedute del Potala, le espressioni di monaci e donne tibetane. Shol era una zona
vicino al Potala che con i cinesi fu occupata da negozi per turisti e l’arte fu
incoraggiata. Dal ’93 i turisti furono avvisati della presenza di una galleria,
la Potala Palace art gallery, la più grande del Tibet, ma molti dei suoi tesori
furono nascosti al pubblico, molte delle pitture originali furono cancellate.
Il ritornello si ripeteva anche nella Chinese artist’s association Gallery a
Shol che controllava le opere d’arte da approvare ed esporre.  Fra le opere esposte vedute delle montagne edegli abitanti nello stile Chen Danqing, fotografie di uomini e donne vestitiaristocraticamente. Queste pitture si basavano in ritratti pre ’59. Lo stile
realista completamente assente faceva capire che i gusti degli occidentali turisti
erano più volti ad un romantico fotorealismo soprattutto di un Tibet non
piùvisibile. Shol divenne in quegli anni zona di dissentismo, gli artisti
criticavano l’educazione cinese che dava l’immagine di un Tibet indipendente è
scarsamente celebrato e spesso il messaggio dietro i loro lavori è difficile da
decifrare. Durante gli ’80 la polizia di Deng Xiaoping e Hu Yaobang diede
risultati diversi dal previsto. Incominciarono movimenti dissenteisti e i
tibetani pressavano per più libertà, manifestazioni represse. Davanti a questo
scenario gli artisti non potevano restare impassibili ma dipingere quegli
eventi poteva rivelarsi un suicidio. I lavori di Nawang Respa sovvertivano le
intenzioni ideologiche deisuoi editori e criticavano politicamente la Cina. In White
Moon Red Banner il masso dietro la donna affranta recita un mantra che
però è oscurato dall’ombra rossa della bandiera cinese. La luna bianca
simboleggia la purezza del Tibet ed è associata ad eventi fausti ma qui la luna
è oscurata come il mantra sulla roccia. L’angoscia della donna è l’eclisse del
buddismo sotto il comunismo cinese. Sembra strano che questo messaggio sia
scappato agli occhi dei pubblicatori. La pittura senza titolo contiene
un’allegoria politica ma ancora una volta il pubblicatore non si è accorto del
suo significato assumendo che il lavoro doveva mostrare unafolla di tibetani
che pregavano con ruote e rosari nella rivisitazione dello stile e del soggetto
di Chen Danqing. Nella pittura c’è del surrealismo di Salvador Dali dove un
orologio-luna-globo funge da coscienza collettiva della storia tibetana,
contornata da scene di vita pre ’59: uno stupa con bandiere da preghiera, rocce
con messaggi di mantra e immagini di Buddha, yak  e un monastero diroccato. Uno fra i tibetani nella folla guarda alla luna-globo-orologio e una donna nella folla ha una
ruota delle preghiere: l’orologio e la ruota, entrambi sospesi sembrano
richiamare alla memoria pre ’59. Solo il buddismo tibetano può riattivare gli
stupa e i monasteri. Respa ha fatto del nuovo stile realista, maneggiandolo,
un’arma e un codice per esprimersi. Oltre a lui un gruppo di tibetani stava
creando un nuovo vocabolario stilistico che impedisse alle autorità di
identificare il loro vero senso ed etichettarlo solo come stile estetico
tibetano. Questi artisti rifiutano il realismo socialista prederendo
l’astrazione dal reale che permettesse ad un’arte ideologica e coscenziosa
tutta tibetana di emergere.  Questo stile
è mutuato dal modernismo preso da Matisse, Picasso, Braque ed altre generazioni
di pittori. Jigme Thinley ha raffigurato i fratelli tibetani a lavoro o in
attività tradizionali con stile e soggetti che riprendono il lavoro di Chen
Danqing nella sua visione di Tibet. Verso la metà degli ’80 molti artisti tibetani
continuarono il loro studio dell’arte andando nell Università delle minoranze a
Pechino dove videro piture modernist e post-moderniste ma dove furono (per le
strade) anche additati come appartenenti a minoranze inferiori rispetto alla
civiltà han. Il trauma acrebbe il sensodella loro etnicità come in Gongkar
Gyatso (1962). Tornato in Tibet dopo anni passati a pechino Gongkar fu
intimidito dalla visuale del panorama tibetano: ogni cosa di esso (colori,
aria…) contrastava con la Cina e si sentì come un cinese che guarda il Tibet e
che ciò che aveva imparato in Cina sul Tibet non gli rendeva giustizia.  Infatti gli artisti cinesi hanno ritratto bellamente il paesaggio tibetano e Gongkar cerca di desinizzare la visuale cinese del Tibet: per lui la vera arte tibetana emerge dalla fusione di
estetiche etnopoliticizzate e il libero esempio del modernismo occidentale. In
Tibetan contemporary art figura Lhamo Latso, un lago tibetano che ha
un certo significato per il buddismo tibetano avendo preso il nome dalla
divinità protettrice del Dalai Lama e dello stato tibetano Palden Lhamo. Gyatso
ha distillato l’austerità del lago, delle montagne e del cielo in un essenza di
puri colori ricordanti le pitture americane. Il titolo in cinese è Extreme
land, che esprime l’impressione cinese del Tibet con l’implicazione
dell’associazione al dipinto di un sino-primitivismo. Negli ’80 Gyatso faceva
parte di un gruppo di artisti che decisero di utilizzare il paesaggio tibetano
per ritrovare una propria identità: questi artisti cercavano di sviluppare una
nuova immagine del Tibet che cancellasse 30 anni di visione realista cinese che
ha marchiato il loro paese come un raro dominio.  Gyatso fu il primo tibetano a dipingere murali nella stanza di ricevimento del Tibet a Pechino e fondatore della “Sweet tea
Painting Association”, la prima associazione indipendente di artisti tibetani.
Come i suoi coetanei Gyatso fu educato secondo la cultura e lingua cinesi, nel
loro immaginario ed ideologia che esaltava Mao ed il regime e rifiutava le
istituzioni tibetane come il Dalai Lama, ma lui credeva difficilmente che la
religione in Tibet avesse portato all’oppressivoe iniquo  sistema feudale pre ’59 senza il soccorso del maoismo.  Nel ’78 la sua visione maoista
del mondo ricevette una scossa perché fu invitato da colleghi artisti a
ritrarre le condizioni dei compaesani in certe zone del Tibet e qui Gyatso vide
la miseria in cui erano caduti i contadini a causa delle direttive maoiste (che
richiedevano le terre agli stessi), questa esperienza fece nascere il dubbio
nell’artista che iniziò a farsi domande su alcune concezioni che aveva sin
dall’infanzia. Quando nel ’79 andò a studiar e a Pechino si rese conto di come
i membri delle minoranze etniche avessero perso la loro identità (lingua, cultura…)
a causa dell’assimilazione sinica e divenne cosciente della ricchezza della sua
minoranza. Acquisendo gli stili occidentali si accorse che erano nati da
società libere con liberi mercati, libertà di espressione e democratiche.
Gyatso assimila l’astrazione senza passare per la fase della dissezione delle
forme come accade nel cubismo, essendo invece più simile a Kandinsky.
L’unica cosa tibetana in questa prima fase dell’artista sta nella scrittura
tibetana U-chen, mentre in opere più tarde come in A prayer estratti
di religiosità tibetana sono predominanti. Il suo ritorno in Tibet (84)
coincideva con l’eclissamento di alcune restrizioni al buddismo tibetano e
l’ascolto di alcune cassette registrate dal Dalai Lama sulla storia del Tibet
lo portarono a creare qualcosa di davvero tibetano. Gyatso non conosceva le
tecniche tibetane come quella dei thanga, aveva imparato solo gli stili
occidentali e cinesi ad olio quindi iniziò a produrre opere negli stili che
conosceva. Gyatso si rese conto che la sua crisi personale era condivisa da
altri tibetani che cercavano un modo mediano di esprimere la loro condizione di
figli sino-tibetani. Nell’85 il governo autorizzò una mostra a Lhasa ma Gyatso
e i suo amici sapevano che  sarebbero stati mostrati solo quadri ammessi dal governo quindi decisero di mostrare i loro lavori in spazi alternativi dove discutere liberamente con altri artisti senza l’intervento statale e di chiamarsi “The sweet tea artists’ association”.
L’identità di questo gruppo e la loro sensibilità divenne strettamente legata
all’ambiente fisico e naturale e decisero di risanare il paesaggio tibetano
popolandolo con riflessioni etno-kitsch ma con significati tibetani. Fecero
escursioni in luoghi remoti del Tibet e Lhamo Latso di Gyatso fu il primo
esempio di un anti relismo che cercava di restituire significati tibetani a
posti tibetani.il quadro  rianimava
l’associazione storica, religiosa e politica in un codice astratto e criptato
che evocava della divinità protettrice del Tibet. Con il revival del buddismo
negli ’80 anche Gyatso si sentiva di prendere questa pratica religiosa e trarne
ispirazione. Così esaminò le pitture rimanenti attorno ai monasteri di Lhasa e
provò a produrre thanga moderni. In uno di questi, Cloud espande lo
stile tradizionale tibetano di dipingere nuvole che qui diventano motivi di
linee. Poi in un periodo di maniofestazioni contro il governo Gyatso entrò in
una fase di isolamento e di realismo nostalgico, i suoi dipinti divennero più
simili a quelli di Chen Danqing, ma nell’89, con nuove tensioni e la strage di
Tiananmen, ritornò all’opera. Con una crescente credenza nella necessita del
Tibet di riguadagnare l’indipendenza sotto il Dalai Lama, Gyatso tornò alla
sperimentazione modernista e produsse una serie di immagini di fieri Buddha
seduti con il colore base steso col cotone e poi inzuppato di inchiostro nero. La delineazione del Buddha è esemplificata facendolo somigliare più
ad un Buddha indiano. Buddha and the white lotus (89) è diviso in tre sezioni con
la porzione centrale riempita da un vuoto nero in cui vola un fiore di loto,
simbolo di buddità nelle pitture thanga, qui appare bruciato da una fiamma
rossa mentre il Buddha è offuscato dalla banda nera al centro. Il buddha qui è
più un fantasma che una presenza esprimendo l’angoscia che il buddha ora non
può guardare i tibetani negli occhi quindi i suoi insegnamenti non possono
materilizzarsi nel Tibet cinese dato dall’assenza del Dalai Lama, figura chiave
del Tibet. 50 anni dopo le sperimentazioni di Gendun Choel questa nuova
generazione aveva trovato sfogo per la sua rabbia e frustrazione attraverso
un’astrazione modernista dalla realtà. Uno di loro reinterpretò la ruota
dell’esistenza per commentare la vita in Tibet. In essa l’elaborato simbolismo
(dei 12 stadi di evoluzione della coscienza, 6 reami dell’esistenza e 3 cause
della delusione) è stato rimosso per lasciar spazio ad un’unica visione (ill
90) anche se la ruola è ancora fra gli artigli della forma infuriata di
Avalokitesvara, Shinge, signore della morte, ma un anello sottile di teschi
circonda un corpo nudo sepolto da avvoltoi. Questo quadro ricorda l’episodio in
cui dei manifestanti decero la circuambulazione(=khorra)  di Barkhor con dei cadaveri nudi di tibetani uccisi dalla polizia cinese. Quindi il dipinto suggerisce che l’antica khorra è diventata zona di mortalità. Come Gendun Chopel usò la ruota dell’esistenza per
commentare contro gli orrori delle guerre nel mondo, così i pittori del nuovo
Tibet rinvigorirono l’antico immaginario per servirsene nella loro lotta per un
Tibet indipendente. Gongkar Gyatso e i colleghi del “sweet tea” hanno inventato
un tipo di pittura tibetana reinterpretando i paesagi tibetani e l’iconografia
buddista tibetana attraverso l’estetica modernista. I loro lavori implicano
critiche di condizioni culturali e politche nel Tibet. Verso gli anni ’90 il
clima di parziale libertà peggiorò impedendo agli artisti di esprimersi alal
luce del sole. Molti tornarono a creare dipinti sinizzati di tibetani che
potevano essere comprati nelle gallerie turistiche a Shol. Gyatso continuò a
produrre immagini di Buddha decapitati e dissezionati in privato e poi decise
come altri di lasciare Lhasa.

Nel ’92 Gyatso incominciò una nuova vita nella capitale in
esilio in India, Dharamsala. All’inizio si sentì come a casa con il Dalai Lama
e con i compaesani ma presto realizzò che nessuno sapeva da dove venisse. I
suoi gusti pittografici non erano condivisi dai compaesani in esilio che
avevano mantenuto le antiche tradizioni ignorando la situazione tibetana dopo
la loro partenza.  Per loro le opere come
Buddha and the White lotus erano immagini sacrileghe. Il suo lavoro non poteva
essere compreso perché gli esiliati non erano ancora pronti al nuovo linguaggio
pittorico tibetano. Nel nuovo Tibet la fusione del modernismo con la
sensibilità tibetana era una tattica di sopravvivenza per gli sweet tea e per
altri artisti, ma in esilio questi stessi artisti furono marginalizzati dagli
stessi coetanei che rifiutavano questa nuova visuale. Solo i thanga nel vecchio
stile sono considerati davvero tibetani da chi controlla la visione degli
esiliati, solo quegli stili fanno parte della tradizione tibetana, per loro,
soprattutto se questo cambiamento è dovuto alla nuova cultura imposta dalla
Cina.  Così Gyatso iniziò a produrre
studi iconometrici del Buddha seduto nello stile Menri di Lhasa come tutti gli
altri studenti di pittura thanga a Dharamsala. Il suo apprezzamento per la
tradizione era filtrato attraverso diversi canoni estetici. In lavori prodotti
fuori dalla classe l’iconometria del Buddha non era solo un metodo di
santificazione o di tecnica ma uno stile significativo per il fruitore. Le
pitture di Gyatso sono frutto di una preferenza modernista e della sua
posizione ambivalente come interno ed esterno a questo vocabolario. Mentre le
griglie iconometriche per gli artisti thanga sono la colonna portante del loro
mestiere che va a perfezionarsi, per Gyatso crede che queste strutture debbano
rimanere visibili perché rappresentano le memorie codificate del Tibet,
ricreate in esilio dai pittori che non vivono più nel loro ambiente. Gyatso
arriva alla conclusione che è più interessato all’iconometria che ai thanga:
per lui le linee e le misurazioni sono di grande valore per capire i principi
artistici e filosofici fondamentali più che i dettagli delle divinità e dei
demoni.  Gyatso si vede culturalmente
senza luogo. La sua soluzione è quella di muoversi così va a vivere in un
monastro nella regione indiana del nord di Ladakh. Il modernismo artistico
tibetano è inconcepibile per gli esiliati ma stranieri che assimilano le
conoscenze degli esiliati sono più accettati di persone che come Gyatso non
hanno patria reale o identità specifica. Chiunque, anche se bianco viene
accettato nella comunità tibetana in India se assimila tutte le conoscenze
adatte per la preservazione della cultura tibetana. Lo stile tibetano, almeno
in India, rimarrà fisso.  Gyatso ha sperimentato la vita nella Regione autonoma del Tibet, un dominio dove la storia è stata cancellata lasciando che i tibetani fiduciosi nel potere della loro immaginazione facciano il vero Tibet attraverso l’arte, se non nella
realtà. In artisti come Gyatso l’invenzione cultura del Tibet e il Tibet
esiliato vanno a collimare. Nel Tibet odierno è espressione dell’identità
tibetata forgiata dal colonialismo maoista, per i tibetani in India è in
disaccordo con l’autenticità dell’antico Tibet pre ’59. Ma entrambi i tipi di
tibetani hanno costruito la loro autenticità culturale attraverso e in base
allo stesso fatto storico. Negli artisti con doppia identità come Gyatso, i
riferimenti al passato scatenano una maggiore creatività e immaginazione per
ricostruire un passato non più esistente. Se i tibetani in esilio privilegiano
lo status di purezza della tradizione lineare che portano avanti, artisti come
gli sweet tea e Nawang Respa sono allo stesso modo consci della storia dello
spazio vuoto che loro abitano, il loro collegamento al pasato è più fluido e si
è mischiato ad influenze non tibetane, per loro il buddismo tibetano è qualcosa
che va reinventato per adattarlo alle condizioni politiche del nuovo Tibet. Si
può concludere che dal ’59 non c’è una vera arte tibetana ma solo dell’arte
fatta da tibetani (in esilio o meno) nei quali resta l’idea di Tibet. La
perdita del Tibet storico significa che la cultura non può essere presentata
come un’entità determinata in relazione ad un luogo, i tibetani non possono
essere rappresentati come un gruppo o mogeneo.in occidente rimane forte l’idea
di Tibet come lo concepiscono gli esiliati, un Tibet tradizionale, i lavori
modernisti sono stati ignorati perché non corrispondono alle aspettative di ciò
che si immagina essere Tibet.  L’esistenza di un’arte pre ’59 in Tibet è allo
stesso tempo discutibile. Il Amnye Machen Institute cerca di portare avanti una
visione del futuro Tibet.

 Bibliografia:

– Cina: D. Jones, F. Salviati, M. Costantino, Arte contemporanea cinese, ed. Electa

– Tibet: C. Harris, In the image of Tibet (tibetan painting after 1959)

2 pensieri su “Arte contemporanea cinese e tibetana

  1. Va tutto bene, ma non è vero che la pittura tradizionanale dei letterati fù accantonata dal governo comunista, basti pensare alle opere di Qi Baishi che venivano regalate ai diplomatici occidentali in visita in Cina.
    Questo artista, notissimo zhuankista, calligrafo e pittore era il fiore all’occhiello del partito al potere. Potremo approfondire.
    Mi piacerbbe contattarla, considerato che conduciamo una scuola di calligrafia cinese tradizionale e contemporanea riconosciuta da università cinesi.

    1. Salve, nei miei riassunti mi limito a riportare le informazioni dei libri senza commentarli, perché sono solo uno strumento per studiare meglio sui contenuti dei testi scritti da altri studiosi ed esperti. Detto questo, in effetti, rileggendo i miei riassunti, vedo che può essere fatta un po’ di confusione su cosa è vietato (o meglio, per quanto tempo) e cosa viene salvato per la propaganda e questo probabilmente non è specificato neanche sui testi dei quali ho fatto questa sintesi.
      Ad ogni modo il discorso mi sembra complesso e non riducibile a “la pittura tradizionale fu accantonata dal governo”.
      Riassumendo la mia sintesi si può dire:
      1) l’Arte (quella chiamata con la A maiuscola, non quella folklorica, quindi la pittura ma anche la calligrafia) diventa qualcosa per “tutti” (non limitata alla classe politica come potevano essere in passato i letterati-burocrati);
      2) Mao vede la necessità di adottare tecniche artistiche più realistiche/fotografiche (le tecniche occidentali) per la sua propaganda, ma il realismo non doveva superare la tecnica, quindi le scene non dovevano essere troppo “cruente” o sentimentalistiche ma serene (come la fotografia di un governo-padre: sicuro ma protettivo ed “affettuoso”)
      3) l’arte antica viene additata come facente parte di un passato oscuro da cui bisognava rialzarsi. Ma qui non specifico cosa viene accantonato e per quanto tempo (e questo può essere fonte di incomprensioni). Invece dico che “gli unici soggetti ammessi”, almeno in un primo momento, erano quelli dell’arte popolare (xilografie, acquarelli ecc.) come slancio per la nuova tecnica realistica (occidentale) in funzione propagandistica.
      4) i soggetti tradizionali (della pittura da letterati) come paesaggi e fiori furono vietati ma poi usati sempre per lo stesso scopo propagandistico di quelli popolari (da qui quadri come “Combattendo nello Shaanxi”, con sfondo paesaggistico tradizionale). Infatti artisti come Li Fengmian in principio furono additati come coloro che si rifacevano ad un’epoca storica passata e buia, ma infine furono riscattati (dopo averli indotti a scappare dal paese o dopo averli portati alla depressione).

      Ciò che può apparire poco chiaro più che sul “cosa” quindi direi sia il “quando”: nel testo di cui ho fatto il riassunto sembra ovvio che i soggetti tradizionali non dovessero essere i più accettati dal governo cinese, ma appare anche che ad un certo punto questi soggetti (e le tecniche tradizionali) furono di nuovo permessi. Ma forse è enunciato in modo poco esplicito.
      A questo punto, come persona competente, mi farebbe piacere se lei potesse far meglio luce (magari anche brevemente) sulla questione della pittura tradizionale di cui non si parla che saltuariamente nel testo che ho studiato.

      Mi permetto un unico commento personale riguardo alla pittura permessa dal governo: non è strano pensare che, da parte del governo cinese, l’accettare/promuovere o meno un certo tipo di arte/artista (come quello da lei menzionato) in un certo momento potesse anche essere una scelta politica, per mantenere una facciata non solo con il popolo cinese ma anche con gli stranieri (che hanno mantenuto contatti forti con l’arte passata dei loro paesi, soprattutto gli occidentali). Questo solo per dire che possiamo anche parlare di strategie politiche ben precise.

      Grazie per il commento, mi piacerebbe ci fossero più spesso commenti del genere e spero possa farne altri (magari partendo da una risposta a ciò che ho scritto ora).
      Se conduce una scuola di Shufa può parlarne sempre in un commento e/o eventualmente mettere un link di modo che anche gli altri utenti possano saperne di più. Grazie!

Lascia un commento