Tradizione, religione, letteratura e società tibetana

TRADIZIONE TIBETANA e mitologia:

Secondo la leggenda tibetana, la prima coppia ancestrale del Tibet sarebbe stata formata da uno scimmione della foresta e da una demonessa delle rocce che avrebbero dato alla luce sei figli: dal padre avrebbero ereditato un corpo coperto di peli e il volto rosso, dalla madre l’assenza della coda e il gusto della carne; per quanto riguarda il comportamento, dal padre alcuni avrebbero ereditato la fede, l’ardore, la saggezza e la bontà, altri avrebbero preso dalla madre il piacere di uccidere, la forza fisica e il coraggio. La loro unione sarebbe avvenuta dello Zothang (nello Yarlung, nel sud, la zona più fertile del paese), a sud dello Tsangpo. Non avendo né cibi né vesti, il dio Avalokitesvara, mosso da compassione, portò loro sei tipi di granaglie: nacquero i primi campi coltivati (a Zotang, nello Yarlung) e gli uomini-scimmia presero poco a poco sembianze umane. Le prime tribù (dai sei figli primordiali) si chiamano mi’u alla quale si unì una settima tribù proveniente o dagli dèi luminosi del cielo o da un uovo primordiale da cui viene l’umanità.

Nel periodo che precede l’arrivo del primo re mitico i tibetani distinguono una serie di epoche (6) caratterizzate ognuna dal regno di un demone o da divinità minori. L’arrivo del re sarebbe avvenuto nella settima epoca dall’unione della demonessa e della scimmia.

Un’altra leggenda pone sempre nel sud-est la discesa (attraverso una corda o una scala) del primo re leggendario tibetano, Nyathi Tsenpo, su una montagna (non identificata): questo re viene accolto da dodici capi o re indigeni (i cui castelli risalirebbero al VI secolo) che stanno celebrando atti di culto in onore della montagna. In opposizione ai dodici saggi che accolsero il primo re (e che sono detti “le sei tribù del popolo da parte di padre”) la tradizione tibetana parla di sette re (da parte di madre) che sarebbero dèi delegati in terra che restano sulla terra di giorno per poi ritornare in cielo di notte attraverso una corda (dmu, una specie di arcobaleno che parte dalla testa fino al cielo) e vi ritornano definitivamente nel momento della loro morte che coincide con il momento in cui il figlio è capace di guidare un cavallo (circa tredici anni). Quindi questo primo periodo è contrassegnato dall’assenza di tombe reali in terra. Poiché era disceso direttamente dal cielo il re era l’incarnazione  e il protettore dell’ordine cosmico, nonché il garante dello stato: la presenza stabile dei re sul trono assicurava l’armonia nel regno. Il re rappresentava l’essenza della continua rinascita dell’antenato divino che si era incarnato in quel re, all’epoca della maturità, e rimaneva incarnato in lui finché suo figlio avesse raggiunto la stessa età per la maturità ascendendo al trono. Esisteva una triade composta dal re, il sommo sacerdote e il capo dei ministri: gli ultimi due, che rappresentavano la gerarchia sacerdotale e la nobiltà, avevano potere esecutivo del governo. Alla salita al potere di un nuovo re si ricostituiva una nuova triade. I sacerdoti e i ministri regali dovevano badare al mantenimento della salute del re da cui dipendeva l’integrità del regno e forse dell’universo. Il figlio dell’ultimo dei sette re , Digum, sarebbe stato il primo a morire in terra a causa di un incidente che lo portò a tagliarsi da solo la corda. È in quest’epoca che la tradizione posteriore (XIV secolo e seguenti) pone la nascita della religione Bon che essa ricollega a paesi stranieri come il Tazig (l’Iran) con gli Azha, il Zhangzhung, il Brusha (Gilgit). Contemporaneamente all’introduzione del Bon nello Yarlung la tradizione colloca la nascita di altre due tecniche religiose: quella dei bardi (sgrung) e quella dei genealogisti e cantori di enigmi (lde’u). Accanto ai bon (recitatori, eseguivano funzioni sacerdotali a servizio del re divino) ci sarebbe stata un’altra classe di sacerdoti, gli shen, dediti alla divinazione.

Fino ad una ventina di generazioni di re leggendari le regine sarebbero state tutte divinità mentre dalla generazione degli Tsen i re incominciarono a prendere moglie dal popolo. All’epoca dell’ultimo degli Tsen, il dio (=lha) Thotho Rinyantsen, la tradizione colloca la prima comparsa del buddhismo in Tibet quando un forziere (contenente un sutra dedicato al patrono del Tibet Avalokitesvara, cioè il Karandavyuha, un altro libro ed uno stupa d’oro) cadde dal cielo: questi doni, di cui non si comprese il significato, sarebbero stati conservati come un tesoro.

Songtsen Gampo fu presto considerato incarnazione di Avalokitesvara poiché la leggenda vuole che alla morte si sia dissolto nella statua di questo dio patrono. Avalokitesvara, il Buddha della compassione, sarebbe retrocesso nel Tibet del passato come protettore della nazione e come punto centrale della storia tibetana: si dice che nel passato preistorico avesse preso forma di un monaco e che si fosse unito con un orchessa da cui ebbe inizio la stirpe tibetana. Anche il grande Gesar di Ling è un’emanazione di Avalokitesvara. Il 5° Dalai Lama si identificò, infine, non solo come quinta reincarnazione di Tsongkhapa, ma anche come incarnazione vivente di Avalokitesvara, identificazione che avvenne da lui in poi. Il Dalai Lama, inoltre, dichiara che il suo stesso maestro è incarnazione di Amithaba, il Buddha della luce infinita, attribuendogli il titolo di Panchen Lama e fondando una nuova linea di incarnazione che ha sede nel monastero di Tashilhunpo mentre la sede del Dalai Lama si trova a Lhasa nel Potala, il palazzo di Avalokitesvara.

 

CULTURA E SOCIETA’:

il popolo tibetano si divide in famiglie agiate e non agiate: le prime dispongono di greggi o terre, le seconde dipendono dalle prime. Il clero si divide in ecclesiastici nobili e in basso clero: i primi sono ricchi ed istruiti e si contrappongono ai secondi, illetterati, che sono incaricati di lavori di ogni sorta. La borghesia è costituita da ricchi mercanti e da amministratori istruiti. Il grande commercio è in mano allo Stato, alla nobiltà e al clero. I mestieri disprezzati, anche per influenza buddhista, sono il pescatore, il macellaio, il fabbro e gli artisti (cantanti, attori, musicisti) ma anche i mendicanti.

Il membro di un clan non può prendere moglie nel suo stesso clan. La famiglia patrilineare è patrilocale. La famiglia propriamente detta si estende per sette generazioni al dilà delle quali non c’è più incesto né obbligo di esogamia. All’interno di un clan ogni generazione è considerata un gruppo compatto: il gruppo formato dal padre e dai suoi fratelli è chiamato padri-zii, e cugini e cugine si chiamano fra loro fratelli e sorelle. Ci sono tre forme di matrimonio: la monogamia (abbastanza recente), la poligamia (limitata ai ricchi e ai nobili), la poliandria (diffusa nella maggior parte del territorio). Le mogli di un uomo sono considerate sorelle e se un gruppo di sorelle non viene sposato tutto insieme, le altre restano disponibili alla morte di una di loro. Nella poliandria, solitamente è un gruppo di fratelli a sposare una donna ma se non sono fratelli i mariti vengono considerati tali lo stesso. È solo il fratello maggiore a scegliere la moglie e i figli della moglie sono figli del primogenito anche se non ne è il padre. Se nasce una figlia questa eredita e sarà suo marito a prendere il suo nome: questo marito vive in condizioni simili a quelle di un servo poiché il suo compito è solo quello di assicurare una discendenza. Questo matrimonio è legato al luogo di residenza: se uno dei fratelli minori si trasferisce in un’altra zona con moglie propria il legame si spezza. I matrimoni possono essere anche obliqui (anche se sono rari): un figlio può condividere una moglie del padre (che non sia la madre) o un padre condivide una sposa col figlio, stessa cosa per madre e figlia che possono condividere uno stesso uomo. I nomi dei figli derivano da quello della madre. L’antica usanza di disfarsi degli anziani una volta che i figli si sono sposati, col passare del tempo si è addolcita ma quando i figli si sposano ancora oggi i genitori conservano solo una piccola parte della proprietà. Un figlio orfano è allevato dallo zio paterno che coincide con chi, solitamente, da l’autorizzazione al nipote per entrare in convento. Spesso, negli alti gradi ecclesiastici, la successione avviene da zio paterno a nipote.

Un uomo è definito dal suo nome personale, dal suo titolo, dal nome della sua casa o delle sue proprietà (coincidente col nome di famiglia), e dal nome del suo clan (che in epoca moderna non c’è più).

La donna tibetana è molto libera sia dal punto di vista economico sia da quello sessuale: possiede beni propri spesso amministrando quelli del marito. Ma mentre le donne possiedono i beni mobili, il capofamiglia possiede i beni immobili.

L’agricoltura è importante come l’allevamento che può essere praticato da nomadi e non. Le case per i tibetani non nomadi sono in pietra, chiuse all’esterno e con un cortile interno, con tre o quattro piani: il piano terra per il bestiame, il primo/secondo per le abitazioni e l’ultimo per una cappella. Quando non sono i solate le case sono costruite lungo un pendio montuoso e sono talmente compatte che si passa da un tetto di una casa al cortile dell’altra. Ad ogni modo i tibetani amano spostarsi (per pellegrinaggio, per commercio, per lavoro) e non appena il tempo lo permette lasciano la loro solida casa in pietra o terra battuta per vivere in tende. Ma è soprattutto il cambio di stagione che porta i tibetani a spostarsi: in inverno si bada al raccolto, in estate si va a pascolare il bestiame. Esistono delle varianti dove ci sono villaggi agricoli presso i pascoli per cui le bestie vengono ricondotte a casa ogni giorno e ci sono villaggi in cui una parte si occupa di bestiame e l’altra di agricoltura. Il villaggio o il pascolo (in caso di tribù di pastori) è amministrato da un capogruppo eletto che raccoglie le tasse consegnandole al signore. Il consiglio degli anziani, che ha eletto il capo villaggio, partecipa all’amministrazione. I villaggi o le tribù dipendono da un signore che governa una serie di territori in cui vi sono tribù o villaggi. Questo signore può essere un principe autonomo, un alto ecclesiastico o il governo centrale (Dalailama). A sua volta un signore può dipendere da un’altra autorità più grande. Quindi la terra è considerata proprietà del signore ed è data in prestito ad un proprietario provvisorio in cambio di servizi e tasse. I principio ereditario è valido solo per i re, i principi o altri signori laici, per gli ecclesiastici che si sposano o per quelli che trasmettono l’eredità al nipote. Questi signori sono controllati da ministri mentre il Dalai Lama è assistito da quatro ministri e da un’assemblea di dignitari. La terra prestata dal signore è legata al nome della famiglia che la occupa rappresentata dal figlio maggiore, ma il signore non può riprendersi la sua terra se c’è un erede e se paga le tasse. Solo i territori dei monasteri sono esenti da tasse (anche se devono fornire funzionari al governo), perché i nobili esenti da tasse le pagano fornendo soldati o funzionari al governo.

Nel Tibet antico la tomba era quadrata e in pietre sovrapposte (e sono bianche nel caso di un re o di un guerriero), con un tetto piatto: sopra veniva creato un tumulo su cui venivano piantate piante. Le tombe erano solo per i re e infatti i cadaveri del popolo sono sempre stati esposti perché ci pensasse la natura mentre i corpi dei grandi ecclesiastici sono imbalsamati o cremati. Fino alla metà del XX secolo i tibetani hanno continuato per la maggior parte a tagliare i cadaveri e a darli in pasto ad avvoltoi e cani o a gettare i corpi infetti e quelli dei criminali nei fiumi nonostante l’esistenza dei cimiteri. Allo stesso modo continuarono a far uso dell’oracolo per questioni politiche. Le tombe sarebbero state introdotte dai Bonpo che oggi seppelliscono i morti in tombe di famiglia. Le tombe dei re sorgevano nel luogo in cui si collocava l’origine della dinastia e sono spesso chiamate “montagne”. Le montagne sono assimilate ad una scala o ad una corda (mu) usata dal primo capostipite per scendere in terra (i primi re non avevano tombe perché al momento della morte tornavano in cielo attraverso la corda). I re morti in terra furono situati su pendii di montagne. Le montagne sacre sono gli dèi del paese o potenti eroi morti e sono i pilastri del cielo (come quelli costruiti accanto a tombe o templi). I tre piani del mondo sono: il cielo con i suoi dèi bianchi, la terra con i suoi dèi di alberi e rocce che sono rossi o gialli, il sottosuolo con i suoi dèi acquatici blu o neri. La struttura della case è stata modellata nella rappresentazione dell’universo e del corpo umano. Il mondo in generale è l’estensione del luogo abitato. Gli dèi delle vette e delle montagne sacre regnano anche sulla testa e sulle spalle dell’uomo ma anche sul tetto della casa. Sul tetto della casa ci sono altari di pietra, bandiere, rami d’albero, corna di animali e fornelli per bruciare rami di ginepro il cui odore viene offerto agli dei delle vette che sono anche gli dèi locali del paese. Questi oggetti sono gli stessi che si trovano nei passi montuosi o nei luoghi di passaggio in generale (come i guadi) e anche sul tetto della casa vengono gridati gli stessi inni di vittoria della vincita degli dèi sui demoni. Lo stesso processo di bruciatura del ginepro, secondo la tradizione, venne eseguito per chiedere al cielo il re. Quindi le montagne sono considerate avi tanto sono legate al clan che le adora. Il territorio tibetano nascerebbe dallo smembramento di un demone che sembra un animale (rospo, tigre o leonessa). Il luogo naturale comprende un dio ed una dea. Ogni comunità si riconosce nel proprio antenato e nel proprio luogo sacro. Se la montagna sacra è il pilastro del mondo, del cielo queste espressioni sono prese dalla casa o dalla tenda e sono sinonime di dio del suolo della casa. Infatti il centro della tenda è costituito da un pilastro mentre nella casa i piani si raggiungono per mezzo di una scala (mu) associata alla colonna luminosa che proviene dall’apertura al centro della casa ma anche a delle divinità che abitano un piano del cielo mentre le divinità phya abitano un altro piano celeste.

È dalle divinità celesti mu che hanno origine i primi re mitici ma anche il patrono Bonpo, Shenrab Mibo. Questi dèi rimanevano in contatto col cielo attraverso la corda mu che partiva dalla loro testa. Allo stesso modo il corpo umano è abitato da cinque o sei protettori uno dei quali, quello del paese, risiede sul capo dove parte la corda. Gli dèi garantiscono al singolo vitalità, potere, successo e lunga vita. Il “cavallo del vento” o “soffio vitale” (associato al respiro) è un principio di vita simile al qi cinese e al prana indiano. L’anima del corpo (bla) risiede al centro della piante del piede ma in un mese si sposta fino a raggiungere il capo per poi tornare al piede con la luna nuova. Al momento della morte l’anima risiede nella tomba o in altri luoghi: nel lamaismo, per conciliare questo elemento con il samsara buddista, si pensa che quest’anima (bla) “esterna” sia solo un principio vitale che rimane nel mondo mentre la coscienza continua il suo ciclo nel samsara. Se gli dèi protettori dell’uomo che risiedono nel corpo e nascono con esso sono anche rappresentati esternamente da oggetti come pietre, bandiere o alberi, e se questi dèi coincidono alle divinità protettrici del sito abitato, anche l’anima (bla) umana può risiedere in un corpo esterno che coincide con l’anima esterna dell’individuo. L’anima intima della persona è in armonia con quella esterna (che può risiedere in un elemento della natura) tanto che se quella esterna viene intaccata la persona potrebbe ammalarsi. L’anima esterna è posseduta da tutti gli esseri compresi i bodhisattva. Gli antichi dèi del paese o dei guerrieri che si trovano nell’ambiente e nel corpo umano sono considerati antichi re, eroi o guerrieri morti che diventano divinità protettrici.

In antichità il raccolto (verso il solstizio di dicembre) segnava l’inizio dell’anno.

I giuramenti si fanno sopra l’acqua che poi si beve: in tali occasioni i maghi sacrificano vittime e l’imprecazione sta nel votare alla stessa sorte colui che avrebbe violato il giuramento. Il giuramento è ricordato erigendo una pietra.

Altre tradizioni come anche il simbolo del Tibet (la leonessa) sono di origine straniera, soprattutto indiana o iraniana.

 

CHIESA ED ORDINI:

La religione del Tibet è il buddismo Mahayana che penetra tutte le istituzioni e tutti gli abitanti. La forma Mahayana tibetana è conosciuta come lamaismo per il ruolo predominante del lama, cioè del maestro. Altre due religioni che hanno contribuito alla civiltà tibetana sono il Bon (i cui fedeli sono chiamati bonpo) e l’insieme delle concezioni e delle usanze della tradizione indigena (un insieme religioso ma non organizzato, senza chiesa, dogmi o sacerdoti). Il buddismo si è sovrapposto e affiancato alle credenze indigene. Ma la distinzione che si può fare prevede una religione degli dèi (lha chos), che designa il Bon o il buddismo, e religione degli uomini (mi chos), che è l’insieme di quelle credenze popolari non organizzate e senza nome.

Due scuole indiane dominano il pensiero lamaista: il Madhyamika (via di mezzo) di Nagarjuna e lo Yogacara (pratica dello yoga) o Vijnaptimatra di Asanga. Il primo è più importante presso i riformati Gelugpa, il secondo è più importante per gli ordini non riformati quali il Nyingmapa. Se il Madhyamika è basata sul concetto che non prevede l’affermazione di nulla (la realtà delle cose non c’è), lo Yogacara è basata sul concetto che prevede il pensiero (o la coscienza) al centro di tutto.

Il lamaismo si basa anche sulla verità vera (noumeno) e quella convenzionale (fenomeno). A seconda del grado spirituale raggiunto attraverso numerose vite gli uomini hanno capacità intellettuali diverse. Le persone che hanno capacità intellettuali superiori rispondono ai riti tantrici. Il santo non distingue fra nirvana e samsara o fra bene e male: per dimostrare che, essendo tutte le cose vuote, non esiste fra loro alcuna differenza, il santo si lascia andare ad ogni sorta di comportamenti non convenzionali. Nel tantrismo la meditazione (che comporta la creazione mentale, cioè il sadhana, del mandala e il soffio vitale) consente un’esperienza vissuta della realtà suprema ma anche della natura fenomenica che è la creazione mentale (= sadhana) della realtà assoluta. Questo esercizio ha come scopo la salvezza e l’acquisizione di poteri sovrannaturali per convertire gli altri. Nel lamaismo l’essenza dell’attività religiosa è prerogativa dei monaci e degli eremiti ed è inaccessibile alla maggior parte dei fedeli che si fidano cecamente dei religiosi. I fedeli non possono fare altro che sperare di migliorare il loro karma attraverso accumulazione di meriti facendo donazione alla chiesa ed ai poveri, facendo pellegrinaggio o deambulazioni rituali attorno agli oggetti sacri, chiedendo benedizioni o formule magiche ai lama. Laici e monaci non istruiti possono recitare o riprodurre in testo certe formule. La recitazione può essere orale o operarsi attraverso mezzi quali ruote che si girano a mano o ad acqua e vento. Tutti quelli che si muovono nella realtà relativa possono rivolgersi a Buddha, bodhisattva o dèi. Il supporto della concentrazione importa poco perché questa è suscitata dalla fede (e dalla volontà nel caso di un meditante). Per coloro che sono impegnati sul cammino della santità, però, l’oggetto della fede è il maestro spirituale (o lama, guru) che nel lamaismo è superiore a tutte le divinità. Ci vuole quindi la sottomissione assoluta del discepolo al lama che per saggiare la sua fede gli impone una serie di prove (come nel caso di Marpa a Milarepa che lo obbligava a numerosi lavori inutili, lo scoraggiava, lo picchiava e lo insultava spingendolo alla disperazione). Utilizzando le emozioni (fra cui collera, stupidità, passione, invidia, malvagità) a seconda del carattere del discepolo, il maestro nel discepolo può provocare, per esempio, una collera tale che egli abbandonandovisi è proiettato fuori di se stesso: il pensiero ordinario, discorsivo è annullato lasciando spazio al pensiero puro della contemplazione che afferra l’Assoluto. Il lama sceglie anche, sempre a seconda del carattere del discepolo, la divinità tutelare che il discepolo deve evocare nella meditazione. Il maestro da al discepolo il potere di leggere un testo con l’iniziazione, cosa che è avvenuta anche per il maestro stesso in una linea che a ritroso arriva ad una divinità suprema. Nella meditazione si fa sorgere, mentalmente, una divinità con tutti i suoi aspetti che ha come scopo quello di fare un’esperienza del carattere illusorio del nostro mondo, ma anche quello di liberarsene e di ottenere la salvezza ripercorrendo il cammino a ritroso. Nel lamaismo la creazione di una divinità prevede delle tappe che vogliono che il discepolo si immagini divinità, poi segue l’immaginazione della divinità vera davanti a se stessi e infine si può aggiungere la “creazione del vaso” dove la divinità viene fatta entrare in un supporto che assumerà un certo potere. Dopo la creazione della divinità si passa alla creazione del bodhicitta (Grande Felicità) che prevede l’unione sessuale che talvolta è puramente meditativa ma che solitamente è accompagnato da una tecnica che fa risalire nell’arteria centrale psico-fisiologica (secondo lo yoga) un “vento” o “goccia” e che il meditante può compiere da solo o con un partner. Oltre che la realizzazione dell’Assoluto questa tecnica procura diversi poteri.

Le immagini di divinità consacrate dal lama sono dei supporti del corpo della divinità per i fedeli che ne rendono culto. Ci sono divinità protettrici della religione che sono uscite dal mondo e certe che ancora non lo sono e si manifestano in un essere umano, chiamato “protettore della religione” come le divinità stesse di cui sono manifestazione. Questi medium sono specializzati in una divinità che mandandoli in stato di trance, comunica con i comuni mortali ed anche lo Stato se ne serve qualora venga dimostrato lo stato di trance. Anche divinità locali minori o eroi dell’epopea possono incarnarsi in persone che ne assumono il nome. Anche i bardi entrano in trance di eroi dell’epopea attraverso l’evocazione di un eroe che fa pregando o cantando la descrizione dell’eroe. Malgrado le differenze per i tibetani il procedimento è lo stesso che nella meditazione del lama. L’unico eroe che non si può più impossessare di uomini perché ha raggiunto la buddhità è Gesar. Altro culto legato agli dèi riguarda la danza in maschera rappresentante un dio che ha origine dal tantrismo indiano.

Nonostante il Dalai Lama sia considerato, oltre che governatore, incarnazione di Avalokitesvara, bodhisattva protettore del Tibet, il Tibet non può considerarsi stato teocratico ma ecclesiastico perché il Dalai Lama non è incarnazione diretta di Avalokitesvara ma è l’incarnazione del personaggio storico che questi era nella sua vita immediatamente precedente.

I monasteri sopravvivono grazie al commercio e al prestito ad usura ma anche grazie ai compensi per i riti eseguiti a richiesta di un singolo. All’interno dei monasteri le classi sociali si conservano e la proprietà privata è ammessa. Negli ordini non riformati che autorizzano il matrimonio, i monaci sposati abitano nel villaggio coltivando i campi familiari. Il basso clero povero, di solito non può seguire studi necessari per assurgere alle dignità ecclesiastiche ed oltre ai servizi di ogni genere di cui lo si può incaricare nel monastero, in certi monasteri, può anche fornire un proprio esercito di monaci guerrieri. Questi monaci fanno da guardie del corpo o da servitori a dignitari ecclesiastici e costituiscono una corporazione molto chiusa con usanze particolari: i migliori fra loro sono considerati tantristi erranti con comportamenti non convenzionali. Alcuni yogin sono stati i portavoce di una critica agli abusi della società: queste critiche sono spesso rivolte ad ordini antichi da parte dell’ordine riformato. Yogin erranti e poveri, chiamati “i folli” che hanno grande talento per la poesia, il canto e la danza si mescolano al popolo e ne prendono le parti criticando anche violentemente gli abusi della società inclusa la chiesa e lo fanno attraverso una forma di critica popolare che si manifesta in canti allusivi in tono ironico.

La carriera del monaco è quella di uno studente che passa da un grado all’altro mediante esami. L’esame riguarda la conoscenza dei testi e la capacità di destreggiarsi nei procedimenti logici, ma anche poteri sovrannaturali derivanti dalla meditazione e dallo yoga: solo presso i Gelugpa gli esami sono costituiti da domande e risposte e da commissioni d’esame. Malgrado l’importanza dei precetti orali per tutto ciò che riguarda la meditazione, il libro e l’insegnamento sui testi scritti hanno ricoperto un ruolo considerevole. La controversia religiosa, ora limitata all’ordine dei Gelugpa, è ormai solamente un esercizio formalistico di logica e sillogismo: si articola in domande e risposte e l’argomentazione prevede i tre momenti del porre la propria tesi, confutare la tesi dell’altro e del rinunciare alla disputa, momenti che comprendono forme scenografiche caratteristiche (gesticolazioni e movimenti vari). Fu in seguito ad un dibattito di questo genere, che oppose religiosi indiani a quelli cinesi, che il re Thisong Detsen decise di promuovere la dottrina indiana in Tibet. Altre dispute teologiche si facevano per iscritto attaccando ordini o autori.

Le interminabili lotte fra grandi monasteri ed ordini religiosi, tranne poche eccezioni, avevano motivazioni politiche ed economiche, non dogmatiche.  

Fra il XIII e il XV secolo si sviluppano una serie di sette (chos lugs) distinte che sono frutto dell’evoluzione di scuole insegnamento sorte nelle epoche precedenti. Queste sette sono divise in sette che basano la loro pratica tantrica sui testi tradotti nel periodo della prima propagazione e quelle che lo fecero nella seconda. Questi due gruppi vengono definiti “vecchio” (rnying ma) e “ nuovo” (gsar ma). Nel vecchio vi è la Nyingmapa e nel nuovo vi sono la Kagyupa, la Sakyapa e la Gelukpa. Il buddismo insegnato e trasmesso dai lama tibetani viene fatto risalire attraverso una linea diretta fino all’XI secolo, quando i fondatori delle maggiori sètte tibetane fecero il pericoloso viaggio verso l’India per ricevere l’insegnamento. Anche quelle sette che non riescono a ad elencare una linea ininterrotta di maestri riescono a mantenere il potere del loro lignaggio attraverso il meccanismo di scoperta dei tesori quasi sempre attribuiti a Padmasambhava.

 

1)      La Nyingmapa fa risalire il suo insegnamento a Padmasambhava (VIII secolo). Si ritiene che i tesori (gter ma) siano stati composti e nascosti da lui. Fra il corpo canonico di questa setta ci sono i tantra ed i tesori. Questa setta identifica nove veicoli fra gli insegnamenti buddisti, il più grande dei quali è conosciuto come Grande Perfezione (Ati-yoga). Questi insegnamenti (riscontrabili anche nel Bon) descrivono la mente come base primordiale, pura. Per la mente il ricercare ostinatamente di liberare se stessa è inutile perché è già di per se liberata. La tecnica della riscoperta dell’onnipresente purezza originale e dell’autoliberazione sta nell’impegnarsi in una varietà di pratiche stabilite per eliminare gli ostacoli karmici: a quel punto la mente fa esperienza di se. I Nyingma e i bonpo (contrariamente ai geluk, ai kagyu e ai sakya) rimangono estranei alla politica interna ed estera come è estranea la gerarchia al suo interno.

2)      Dzogchenpa (ramo dei Nyingmapa), con sede nel Kham, adorava Padmasambhava tramite il traduttore Vairocana. Quest’ordine tramanda un tantrismo che deve molto al Chan cinese. L’origine della scuola rimane oscura come il bon. Questa tradizione nel XII secolo circa tentò un collegamento con il IX secolo e con Padmasambhava mediante la scoperta di tesori (gter-ma), cioè scritti apocrifi (come delle profezie) che si diceva fossero nascosti al tempo di Padmasambhava.

3)      Kagyupa, organizzato dai discepoli di Milaraspa (Milarepa) che fu allievo di Marpa (il quale fu discepolo di Naropa e Maitripa) il quale gli trasmise i canti mistici (doha) dei santi poeti tantrici del Bengala e le dottrine chiamate Mahamudra, Grande Sigillo. Il Grande Sigillo, lo stato originario, è uno stato di consapevolezza illuminata in cui l’apparenza fenomenica e la vacuità noumenica sono una cosa sola. Si dice che Milaraspa abbia raggiunto la buddità in una sola vita. La mente avrebbe un aspetto ordinario ed uno naturale: il primo riflette larealtà com’è mentre il secondo è distorto dagli errori di percezione. La mente naturale o mondana non va distrutta ma “convertita” in consapevolezza. Il suo discepolo più illustre è Gampopa (Sgampopa) che ha dato una forte impronta monastica alla setta. I suoi discepoli sono i fondatori delle ramificazioni della scuola Kagyu. Fra i rami del Kagyupa ricordiamo quello di Shang e quello di Dagpo

4)      Shang, fondato da Khyungpo lo yogin, è un ramo del Kagyupa (pag 55)

5)      Dagpo, fondato da Gampopa (o Dagpo Lhaje), è un altro ramo Kagyupa.

6)      Karmapa, fu fondato da Dusum Khyenpa (1110-1193) che si ricollegava  ad alcuni discepoli di Milarepa come Gampopa e Rechung. L’ordine, che è derivato dai Kagyupa, è conosciuto anche come “ordine dei berretti neri” e vanta  l’introduzione del sistema delle reincarnazioni successive di una stessa persona che, più tardi, fu adottato per i Dalai e Panchenlama. In seguito avrebbe dominato anche i gerarchi dell’ordine dei berretti rossi.

7)      Sakya si rifà al traduttore Drogmi Shakya Yeshe (‘Brog mi Shakya Ye shes, XI secolo) che studiò presso Virupa in India. Il centro della setta divenne il monastero di Sakya. Uno dei membri della setta di famiglia Khon è Sakya Pandita (Gunga gyaltsen) che riuscì ad ottenere l’appoggio mongolo di Godan. Uno studioso Sakya, Budon, sistematizzò le varie raccolte di testi indiani circolanti in Tibet nel Kanjur (traduzione della parola) e nel Tanjur (traduzione dei sastra). I Sakya governarono per tutto il XIII secolo.

8)      Kadampa, ordine fondato da Atisa, insisteva sulla necessità della disciplina monastica e della via graduale per gli uomini comuni.

9)      Gelugpa (Dge lugs), fondato da Tsongkhapa, si rifaceva al modello del vinaya dei Kadampa ma non identificala fonte della sua tradizione con uno specifico maestro indiano sebbene si consideri erede della tradizione di Atisa. In un primo momento i seguaci di questa setta furono conosciuti come Gandenpa dal monastero di Ganden. I Gelugpa fondarono università importanti fra cui quella di Drepung (‘Bras spung), il più grande monastero buddista del mondo. Altro monastero della setta è Sera. I Gelugpa dominarono la scena politica dal XVI al XIX secolo.

 

Nel tempo la chiesa lamaista ha accolto numerosi elementi estranei del buddismo e al tantrismo indiano, ciò che avvenne anche in India dove il buddismo aveva assorbito divinità e pratiche di altre religioni oltre ad un folklore indiano e straniero. Ma non tutti gli elementi non buddisti tibetani sono indigeni.

La tradizione vuole che prima di Songtsen Gampo e dell’introduzione del buddismo il regno era protetto dai Bonpo, i bardi e i cantori. Bardi e cantori dovevano designare la “religione degli uomini”, il mi-chos, che si contrapponeva al lha-chos, la religione degli dèi, che andò a designare soprattutto il buddismo. Ciò che ci è arrivato sul mi-chos riguarda massime di saggezza enunciate in uno stile poetico caratterizzato dall’utilizzo di metafore, clichés e proverbi. Le storie dei bardi facevano parte di questi racconti mi-chos. I cantori di enigmi cantavano la creazione del mondo e le genealogie divine e umane. Come i riti del Bon, anche i racconti e i canti proteggono il regno in virtù della loro forza religiosa: l’epica, i canti e i racconti recitati ma anche gli spettacoli teatrali rallegrano il dio del paese (la montagna sacra) creando comunione fra lui e il popolo che assiste.

I Bonpo sono di quattro specie: quelli del mondo apparente (eseguivano riti propiziatori), quelli della magia (catturavano i dèmoni), quelli della divinazione (predicevano il futuro) e quelli delle tombe (che facevano il conto dei morti e dei vivi). Questi bonpo formavano il Bon della Causa mentre altri bonpo specializzati nella salvezza costituivano il Bon degli Effetti ed infine, in un’epoca più tarda, sarebbe nato il Bon trasformato o adattato che sotto Thisong Detsen assimilò terminologia buddista. Quello trasformato è il Bon che si conserva ancora oggi e si presenta come ordine eterodosso del lamaismo, vicino per caratteristiche all’ordine Nyingmapa, con una propria letteratura e monasteri. La discesa del Bon sarebbe avvenuta con la perdita di una gara fra Bonpo e buddhisti dopo la quale Thisong Detsen dichiarò il Bon religione eretica e cacciò i bonpo da Samye. I testi antichi indicano i bonpo come maghi o sacerdoti che eseguivano sacrifici in occasione di funerali o giuramenti e che guarivano i malati mediante esorcismi. Il santo fondatore del Bon, Shenrab Mibo, sarebbe nato in Iran (o Persia o Tagikistan). Quando Shenrap, l’illuminato dalla nascita, giunse in Tibet sottomise i demoni locali e li convertì alla vera religione un po’ come Padmasambhava. L’imitazione del lamaismo da parte dei bonpo (testi, termini, meditazione) va di pari passo all’assimilazione di elementi bonpo da parte del lamaismo. Le credenze del Bon sistematizzato o adattato sono (a parte i termini tecnici ed i nomi) identiche alle dottrine nyingmapa, mentre altre credenze bon si confondono con la religione senza nome tibetana. Come i Nyingmapa i bonpo hanno continuato a scoprire i testi tesoro, come Nyingma il loro insegnamento è quello della Grande Perfezione e come i Gelugpa i bonpo si impegnano in dispute ufficiali sui punti dottrinali. Mentre i buddisti insistono sulle origini indiane delle loro pratiche, i bonpo si sono appropriati della cosmologia, delle divinità e della e della terminologia tibetane prebuddiste per affermare la priorità storica del bon e distinguerla da quella buddista.

I bonpo sembra abbiano preso coscienza della loro identità nell’XI secolo (insieme a tutte le altre sette tranne la nyingmapa) nonostante si propongano come appartenenti a un’epoca anteriore anche al vecchio ordine (Nyingmapa).

La cosmogonia bonpo presenta numerose varianti: l’uomo avrebbe comunque origini divine (phya). Le divinità locali tibetane sono viste come “terrene” cioè soggette al karma e al samsara. Possono abitare i cieli, la terra e il sottosuolo e, se disturbate, infliggere malattie agli uomini: il paesaggio è anche ricco di terre che racchiudono una forza particolare, siti ideali per la pratica del tantra (fra cui il regno di Shambala).

La letteratura buddista è divisa in sutra (testi che tradizionalmente contengono le parole del Buddha o ciò che è stato detto con la sua approvazione) e sastra (trattati composti da commentatori indiani). Le opere di figure come Candrakirti, Santideva e Dharmakirti ebbero grande influenza in Tibet. Le opere di questi ed altri autori gettarono le basi per la tradizione accademica tibetana che in un primo periodo si basò sul buddismo dei sastra: i sutra erano venerati ma raramente letti da soli.

I tibetani hanno assimilato il tantrismo (o buddismo Vajrayana o mantrayana o veicolo del diamante) che è considerato un approccio esoterico al mahayana poiché il periodo per raggiungere la buddità si riduce da migliaia di eoni in tre anni e tre mesi. Le tecniche yoga e di meditazione garantiscono il conseguimento della buddità e l’acquisizione di poteri sovrannaturali. Chi riesce a sviluppare tali poteri è conosciuto come mahasiddha. Se nel mahayana saggezza e compassione sono componenti essenziali per la via del bodhisattva verso la buddhità, nel tantrismo queste due qualità, viste come maschio e femmina anche nel mahayana, sono rese in termini sessuali, essendo la loro unione essenziale per il raggiungimento dell’illuminazione. La via tantrica utilizza azioni solitamente proibite in altre pratiche che fanno progredire velocemente sulla via dell’illuminazione (quali mangiare la carne o il sesso rituale). Il pantheon tantrico è popolato da divinità irate di origine sciamanica tibetana: alcuni sono Buddha e bodhisattva nei loro aspetti terrificanti che servono per spaventare le forze maligne o per proteggere il dharma. Il buddismo tantrico dà risalto al ruolo del maestro (lama) che agisce come sostituto del Buddha: proprio per questo il buddismo tibetano è conosciuto anche come lamaismo.  La meditazione tantrica prevede la visualizzazione mentale (=sadhana) di un mondo,l’invito della divinità, la discesa e l’identificazione. Il mandala è il mondo perfetto che il meditante cerca di manifestare e poi di occupare sia identificandosi con la divinità centrale sia facendo offerte. Chi medita si concentra spesso sull’immagine di un Buddha particolare e del suo mandala e questo è uno dei motivi per cui i dipinti e le statue sono posti davanti ai meditanti durante la pratica meditativa: questi oggetti hanno solo funzione devozionale finchè non vengono consacrati. Nel passo successivo del sadhana il praticante anima chi risiede nel mandala e richiede ai Buddha e ai bodhisattva di scendere ed unirsi con i loro duplicati immaginari. In seguito il meditante fa loro delle offerte recitando mantra idonei e richiedendo benefici. Infine il meditante invita l’assemblea a partire dissolvendosi nella vacuità.

Il buddismo tibetano si caratterizza per essere basato sui sastra per quanto riguarda la dottrina e sui tantra per quanto riguarda la pratica ma alcune pratiche come il vinaya sono delineate nei sastra. Ogni setta tibetana ha sviluppato tradizioni scolastiche di esegesi tantrica.

 

LETTERATURA:

il tibetano, per struttura e lessico, è affine al birmano e ad altre lingue di popolazioni fra Cina e Tibet (popolazioni Qiang, Mosso, Jyarung…). È una lingua monosillabica che ha un alfabeto nato da una scrittura indiana.

In letteratura, da una parte ci sono i testi dei due grandi canoni delle scritture, il Kanjur e il Tanjur (il primo contenente le opere considerate espressione della parola del Buddha, il secondo contenente i commenti e i trattati, i rituali, i canti ecc) con temi religiosi e filosofici tranne alcuni trattati sulle scienze tradizionali (grammatica, prosodia, astrologia e medicina), dall’altro ci sono i testi di natura più profana risalenti al XII secolo (canti, poesie, inni, componimenti teatrali, biografie in romanzo, l’epopea e le novelle) che nonostante la loro natura, sono produzioni di religiosi che hanno trasmesso la loro religiosità al testo. Fortunatamente la lingua di questa letteratura “profana”, non buddista, e che si può ricollegare in parte al mi-chos, ha conservato un punto di vista stilistico e un impiego delle immagini tutto tibetano. Nell’epica e nel teatro la narrazione in prosa è molto breve e viene cantilenata velocemente perché serve solo per collegare fra loro i canti che ne costituiscono la parte essenziale. Le sole opere poetiche antiche che siano state scritte sono pervenute solo grazie ai religiosi, dal momento che l’istruzione era limitata all’ambiente ecclesiastico. Gli autori delle canzoni, dell’epica e del teatro, tutti religiosi, hanno approfittato della possibilità offerta dall’interpretazione simbolica di gesti ed espressioni indigeni per calare insegnamenti buddisti in opere accessibili al grande pubblico (cosa che fece lo stesso Milarepa che segna la fase di passaggio dall’epoca antica a quella buddista). Accanto a queste opere filo-buddiste si accompagnano delle opere indigene rimaste a livello popolare e a livello di mi-chos. Gli autori veramente conosciuti in Tibet, al di là della cerchia dei religiosi istruiti, si presentano come una specie di santi il cui comportamento paradossale si è alleato alle sorgenti della tradizione popolare e diventarne portavoce: questi santi appartengono agli ordini non riformati, soprattutto ai Nyingmapa e ai Kagyupa. I santi poeti di questi due ordini si distinguono dagli autori dotti per il loro non conformismo di fronte alla chiesa, per il loro comportamento paradossale e la loro vita errabonda. Si dicono “folli” ed è con questo nome che vengono conosciuti e amati dal popolo per il loro carattere bizzarro e le loro critiche e sarcasmi nei confronti degli abusi dei grandi.

L’epica ha certe analogie con le opere teatrali (strutturalmente di origine indiana, scenograficamente di origine cinese): la sua parte essenziale è costituita di canti in versi mentre la narrazione in prosa è breve e serve ad ambientare i canti. L’epopea, attestata fin dall’XI secolo, ha continuato ad estendersi anche ai giorni nostri. Nell’epopea, che ha elaborato il vecchio concetto buddista dei quattro figli del cielo, cioè i sovrani dei quattro paesi del mondo asiatico (Cina, India, Iran e barbari del nord) Gesar, re di Phrom, è il rappresentante del nord degli eserciti. Gesar derivererebbe da kaisar, cioè Cesare, mentre Phrom da Rum, cioè la Roma orientale, Bisanzio.

 

N.B.

La desinenza “pa” indica persone appartenenti ad un gruppo o nate in un determinato luogo.

 

GEOGRAFIA:

A causa della natura del suo territorio, in cui si trovano le montagne più alte del mondo, con alcune cime che si ergono al di sopra degli 8.000 metri tra cui il celebre Monte Everest, il Tibet, questo enorme altopiano, è da sempre conosciuto come il Tetto del Mondo. I centri abitati si trovani fra i 4000 e i 5000 metri. Dalle sue cime nascono, inoltre, alcuni dei più importanti fiumi asiatici come il Fiume Giallo (Cina), il fiume azzurro (Cina), l’Indo, il Gange e il Bramaputra (che nella parte tibetana, quella d’origine, prende il nome di Tsangpo).

Il territorio del Tibet, complessivamente ampio sette volte la Francia circa, offre i più disparati ambienti fra cui deserti con laghi salati, zone acquitrinose, ampi pascoli e vallate, foreste e le già citate montagne. Nei campi delle vallate il clima rende possibile la piantagione di orzo, grano, avena, piselli, senape e numerosi legumi ma anche uva, melograni, pesche, albicocche, giuggiole, mele, pere, prugne e angurie. Viene prodotto anche del miele.

 

 

Bibliografia: – Il Buddhismo tibetano. Donald-Lopez

                   – Tibet, storia della tradizione, della letteratura e dell’arte. Richardson-Snellgrove

                   – La civiltà tibetana. Stein

 

  

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