Etnomusicologia: Introduzione alla disciplina

dagli appunti del prof. Sestili

Fasi storiche dell’Etnomusicologia:

–          Letteratura di viaggio (fine 1500): elenchi senza confronti fra le musiche mondiali e prime monografie sulle musiche altre. A fine 1700 J.J. Rousseau ma anche J. Baptiste d’Alambert insieme a Diderot ( che scrissero l’Encyclopedia dove si parla anche di scale e di melodie cinesi, arabe, strumenti cinesi ecc.). Joseph Marie Amiot (gesuita) è il primo studioso di musica cinese a Pechino. A fine 1800 con Fetis lo studio di Cina, Giappone, India ecc. pone queste culture come inferiori a quella occidentale. Edison inventa il fonografo (si può estrapolare la musica dal suo contesto culturale).

–          Musicologia comparata (da fine XIX sec. alla prima metà del XX secolo): teorie evoluzioniste (che esprimono il grado di evoluzione musicale delle culture ponendo al primo posto quella occidentale)  e positivismo (metodo scientifico improntato sulla credenza che la musica è un linguaggio universale, per questo cerca degli “universalia”, dei punti in comune a tutte le musiche mondiali). Si studia la musica a tavolino grazie alle prime registrazioni (soprattutto a Parigi).  A fine XIX Ellis (che dà l0impulso per la nascita dell’etnomusicologia) dice che la scala musicale non è né unica né universale ed introduce il concetto e la misurazione di “cent”, la centesima parte di un semitono). Si attiva la scuola di Berlino di cui fanno parte Stumpf, von Hornbostel ed Otto abraham. Sachs-Hornbostel classificano gli strumenti in base alla vibrazione sonora.

–          Etnomusicologia (dal 1940-’50), da Blacking: influenzata dagli antievoluzionisti americani, per cui ci si sposta in USA. La ricerca si sposta di nuovo sul campo (non è più a tavolino), si abbandona la ricerca universalistica. Kunst (nel 1950) propone il nome di Ethnomusicology e concepisce l’organizzazione colotomica.

–          Antropologia della musica (dal 1960): nome nato dall’opera omonima di Merriam (che studia la musica nella cultura e poi come cultura dicendo che “il suono è frutto di un comportamento musicale guidato da concezioni musicali di un gruppo umano”). L’antropologia musicale si occupa delle funzioni della musica, del ruolo sociale dei musicisti, dei sistemi di trasmissione (mentre l’etnomusicologia ricostruisce i sistemi musicali come le scale, il ritmo ecc.).

Queste discipline studiano musiche (quasi sempre di tradizione orale) di società “primitive”, società complesse asiatiche, fasce eurofolkloriche, musiche urbane, musiche transnazionali (etnopop ecc.) e l’origine e la funzione della musica.

Differenziando fra etnomusicologia e musicologia possiamo dire che:

–          l’etnomusicologia studia: musiche di tradizioni più che altro orali, musiche extraoccidentali ed eurofolkloriche, considera il contesto, ricerca sul campo, non ha pregiudizi (distacco critico).

–          Musicologia studia: la musica scritta ed eurocolta, considera solo il testo (senza contesto), ha giudizi di valore.

Qualche definizione:

–          Cultura: insieme complesso di capacità (non pratiche) ed abitudini acquisite dall’uomo come membro di una società (Tylor, 1871). I successori di Tylor parlano di cultura materiale. Fabietti passando da cultura a cultura afferma che sono un insieme di processi mutevoli e dinamici, quindi non esiste un limite di cultura di un paese che ne può avere più di una a secondo del tempo e del luogo considerato.

–          Musica: concezione che si impernia più che altro su quella illuminista (di J.J. Rousseau, che dice che la musica è l’arte di combinare i suoni in modo gradevole all’orecchio) e romanticista (secondo cui è l’espressione di sentimenti ). In etnomusicologia Blacking pensa che sia “un suono umanamente organizzato”, Molino pensa che sia un suono costruito e conosciuto da una cultura. Possiamo quindi dire che la musica di una cultura è l’insieme dei repertori, dei comportamenti e dei concetti che una cultura definisce tali.

–          Cultura musicale (Titon-Slobin): indica il coinvolgimento complessivo di un gruppo nella musica (idee, azioni, istituzioni, oggetti). Si indicano vari livelli:

a)      Idee sulla musica: estetica, contesti e storia

b)      Organizzazione sociali musicale: divisione della pratica musicale in un gruppo (per genere, età, etnia, professionisti-semiprofessionisti ecc.)

c)       Repertorio: stile (scale, ritmo, tempo..), genere, testi, composizione/improvvisazione, trasmissione, movimenti

d)      Cultura materiale: strumenti musicali, spartiti, libri ecc.

–          timbro: qualità del suono che rende riconoscibile la sua fonte sonora (strumento) ed è dovuto al materiale e alla costruzione dello strumento (oltre che dai suoni armonici, da fattori temporali – come attacco e tenuta-, dallo stimolo che produce il suono – plettro, martelletto, dito…-). In Asia c’è una ricerca estetica del timbro del singolo suono più che del profilo melodico (e questo non ha dato vita a chiavi o ad altri dispositivi strumentali proprio per avere il pieno controllo sul suono da produrre).

–          Eterofonia: esecuzione simultanea di una melodia in cui ogni musicista abbellisce la linea melodica secondo le caratteristiche idiomatiche del proprio strumento (variazione simultanea della stessa melodia da parte di strumenti diversi, anche quando non c’è intenzionalità –shomyo-)

–          Tempo: andamento dell’esecuzione (velocità)

–          Ritmo: diverse durate dei suoni musicali (organizzazione della durata dei suoni) la cui organizzazione è spesso in riferimento ad una pulsazione (ritmo determinato) più o meno regolare (isocronia) altrimenti è un ritmo libero.

–          Metro: schema/modello ritmico implicito/mentale basato su pulsazioni (isocrone)

–          Accento: stimolo che ha rilievo più che altro psicologico

–          Organizzazione colotomica: (da Kunst, XX secolo) organizzazione che determina, segna i periodi. È un’organizzazione ciclica in cui un sistema di colpi e pause sostengono la struttura ritmica e in cui i diversi strumenti e possono intervenire solo in alcuni tempi. Sono unità gerarchiche (alcune pulsazioni sono più importanti di altre). L’organizzazione ritmica ciclica si trova in Asia orientale in Corea (dove si chiama changdan) e nel mondo arabo.

–          Ciclo ritmico: modello ritmico, metro non organizzato su un numero limitato di unità

–          Suono: produzione della vibrazione di un corpo elastico (che ha una certa altezza = frequenza; una certa intensità = ampiezza della vibrazione; e timbro)

–          Intervallo: rapporto di frequenza fra due suoni

–          Scala (definizione di Nattiez): insieme degli intervalli (non le altezze assolute, perché alcune culture non hanno diapason, ovvero un’altezza di riferimento) con cui si discretizzano/determinano/elencano le altezze (cioè suoni, note) udibili (determinando un certo numero di altezze/suoni) senza gerarchizzarle (come fa invece il modo).

–          Intervallo di ottava: rapporto dio frequenza 2/1 dove quindi il suono acuto ha un numero di vibrazioni doppio rispetto a quello grave. Le altezze nell’ottava sono 12: cioè 7 suoni naturali e 5 alterati (diesis e bemolle). L’intervallo occidentale più piccolo è il semitono.

–          Intervallo di quinta: rapporto di frequenza 3/2. La scala pentatonica è ottenuta con il ciclo delle quinte, limitando la successione ai primi 5 suoni (tipo quella cinese: do-re-mi-sol-la, che non ha relazione con la teoria dei 12 lü, ma invece deriva dalla pratica effettiva).

–          Scale generali: sono le scale che informano tutto il sistema (in certe culture). Raccolgono tutte le altezze disponibili, senza indicazioni gerarchiche, e tutti gli intervalli possibili. Nella tradizione arabo-persiana, basate su microintervalli, ci sono 24 suoni nell’ottava distanti di ¼ o più spesso di ¾ di tono. Nella pratica effettiva predominano le scale eptatoniche (7 suoni).

–          Tonalità: elaborazione ed organizzazione delle altezze della musica eurocolta.

–          Modalità: elaborazione ed organizzazione delle altezze nelle musiche extraoccidentali (Asia orientali- Mondo arabo)

–          Sistema modale: (in cinese “diao”) si manifesta attraverso una melodia solistica (monodia, piano orizzontale), privilegiata rispetto all’eterofonia, o attraverso le sovrapposizioni di parti distinte (eterofonia, piano verticale).

–          Scala modale: successione di altezze ed intervalli specifici di un modo, è gerarchica. Powers pensa che lo spettro modale spazi da una scala astratta ad una melodia fissa.

–          Centro tonale: suono fulcro di un modo.

–          Modo (Nettl, 1964): determina il percorso/le regole attraverso cui si passa da un suono all’altro. è un percorso attraverso cui le altezze di una scala sono utilizzate in un brano (possono avere connotazione ritmica tipica e ornamentazioni specifiche). Alcuni modi sono correlati a certe parti del giorno, delle stagioni ecc. e possono avere simbologia cosmogonica, astronomica, politica, cromatica e medica. Nel mondo arabo Al Kindi (X sec.) e Ibn Sina (XI sec.) reintroducono speculazioni cosmogologiche e numerologiche; nei trattati dal XVI al XIX secolo riemergono speculazioni cosmogologiche ed associazioni agli umori, allo zodiaco ed agli elementi.

Organologia: Jean de Murs (XIII secolo) fa la prima classificazione degli strumenti in corde, fiati e percussioni. Poi Praetorius (XVII secolo) è il primo a dare un nome alla disciplina (in De Organographia). Nei musei vengono fatte classificazioni strumentali fra cui quella di Sachs. Mahillon (XIX sec.) elabora una classificazione quadripartita poi migliorata da Sachs e Hornbostel nel 1914.

In Cina esiste la classificazione dal VIII secolo a.C. chiamata Bayin. Nel mondo arabo Al Kindi (IX sec.) descrive il liuto “ud” e Al Farabi (X sec.) descrive i cordofoni e gli aerofoni (di cui Ibn Sina specificherà se con o senza ancia).

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approfondimenti:

 Estratti dal “Dizionario di Antropologia”, Facci Serena (pp. 18, 200, 282-283, 357, 460, 505-507, 718-719)

musica: Rousseau ne parla come “arte di combinare i suoni in modo gradevole all’orecchio”, altre concezioni antiche ne parlano come “arte di combinare i suoni in base a regole definite, diverse a seconda dei luoghi e delle epoche” (Zanichelli). Sulle finalità della musica gli studi di antropologia musicale (etnomusicologia) parlava di varie funzionalità: quella per la danza, nei canti di lavoro, nel rituale, quella sociale, quella espressiva o estetica ecc. In ambito etnomusicologico si è passati ad altre definizioni che facessero capire cosa è musicale e cosa non lo è in una cultura, quindi cercando di verificare l’intenzionalità i agire in modo musicale per cui la produzione di suoni organizzati può considerarsi  musica se il produttore agisce in contesto musicale e ha una finalità compresa tra quelle pertinenti nell’agire musicale. L’interesse per le etnoteorie ha spinto la disciplina a cercare nuove terminologie ea categorizzare le diverse culture  per individuare i fenomeni considerati musicai. Fra le nuove definizioni c’è quella di scala, il cui concetto antico è stato criticato per primo dopo tanto tempo da Ellis, che la definisce né naturale, né unica ma artificiale e capricciosa nelle variazioni. Inoltre Ellis mette a punto un sistema centesimale di misurazione delle differenze di altezza tra i suoni ancora oggi in uso. Le ricerche della musicologia comparata berlinese partirono dallo studio comparativo dei vari sistemi scalari per tentare di rintracciare una matrice universale, ricerca che successivamente fu abbandonata. Co tempo si è scoperto che esistono repertori fondato su un numero limitato di suoni, che i sistemi modali orientali sono sofisticati, che il sistema pentatonico è grandemente diffuso e che in alcune culture c’è l’opposizione tra intervalli ben definiti e altri più aleatori (fenomeno che ha indotto gli studiosi a ipotizzare un’impronta culturale e on solo fisiologica nel modo di percepire  le altezze e l’importanza del valore simbolico attribuito ad esse. Il ritmo, l’organizzazione delle durate è il fulcro dei sistemi musicali. L’organizzazione ritmica eurocolta, fondata su proporzionalità delle durate dei suoni e sulla regolarità degli accenti è molto lontana da quelle di altre culture. Una delle più grandi acquisizioni dell’etnomusicologia è che ogni brano musicale risponde a un’organizzazione formale. La più diffusa regola compositiva nelle culture orali è la ripetizione variata di formule melodiche o ritmiche secondo alcuni schemi strofici o altre modalità che vengono individuate in ogni singolo repertorio. Nella musica orientale è molto diffusa l’improvvisazione a partire da un modo, cioè un insieme dato di suoni e di regole per il passaggio da un suono all’altro. L’esecuzione di più esecutori dà il problema della polifonia il cui intreccio può manifestarsi con una parte predominante sulle altre, le altre possano avere andamenti paralleli o contrari con bordone, con andamento omoritmico o  eteroritmico. Boiles in base al grado di estemporaneità distingue quattro livelli di esecuzione: fissa, programmata, immediata e probalistica, che corrispondono a livelli via via più inferiori di condizionamenti dall’esterno della libertà dell’esecutore. Un evento musicale è caratterizzato d una serie di fattori  di ordine formale e sociale determinanti per comprendere lo spazio ce la musica occupa in una determinata cultura in un determinato contesto. Spesso gli antropologi hanno visto la musica come una manifestazione di superficie della cultura mentre è stato dimostrato che in molte culture  gli eventi musicali sono altro che elementi decorativi, come accade nel caso dei rituali.

etnomusicologia: studio dei tratti musicali delle culture di interesse  etnologico (etnologia) e demologico (demologia): società esterne alle cultura europea (comprese quelle del folklore europeo). I tratti musicali sono i repertori, gli strumenti, le danze, i tipi di emissione vocale, i sistemi di regole compositive, i modi di produzione e fruizione, le forme di sapere trasmissione del sapere e di teorizzazione più o meno esplicita.

Il termine 2etnomusicologia” fu usato per la prima volta da Kunst nel 1950 per poi essere adottato ufficialmente nel ’55, anno in cui nasce la Society for Ethnomusicology. Viene così messa in discussione la definizione di “musicologia comparata” di origine tedesca.

Le basi scientifiche dell’etnomusicologia vengono poste a fine XIX secolo con le prime registrazioni sul campo (fu Fewkes a fare la prima registrazione con il fonografo nel 1889 in India, mentre nel 1885 A.J. Ellis scrive il testo On the musical scales of various nations, in cui è relativizzato il concetto di scala musicale). All’inizio del XX secolo il centro più prestigioso degli studi di musicologia comparata  era il Phonogramm-Archiv dell’università di Berlino. La “scuola” di Berlino effettuò la comparazione di materiali musicali di varia provenienza geografica per sistematizzare i fenomeni musicali e per poi individuare dei “universali culturali”, tratti formali rintracciabili in tutte le culture e visti come tracciati evolutivi generalizzabili. Con il trasferimento di molti rappresentanti della scuola di Berlino negli Stati Uniti si ha uno sviluppo della disciplina: grazie a Boas ed altri studiosi si inizia una più diretta conoscenza delle culture musicali in esame grazie a più frequenti ricerche sul campo e si accantonano le ipotesi universalistiche e della prospettiva comparata (ricerca sul terreno e metodo comparativo) che non fu, però, mai del tutto abbandonata. In Europa, prima della seconda guerra mondiale, personaggi quali Bartok, Schaeffner e Brailoiou, danno impulso alla formazione di importanti archivi sonori come frutto di ricerche sul campo. In Italia solo nel 1948, con Nataletti, si avviano le prime registrazioni sistematiche sul campo e solo nei ’70 (con Carpitella) si ha un riconoscimento della disciplina etnomusicologica in ambito accademico. Dalla seconda guerra mondiale in poi gli strumenti tecnologici utilizzati nella ricerca si affinano prima con l’uso del magnetofono e  poi con quello del melografo (approntato da Seeger), strumento che tracciava l’andamento delle altezze di una melodia per sviluppare un sistema il più oggettivo possibile per trascrivere le musiche da registrare. Hoop teorizza il “bilinguismo musicale” e fonda i primi corsi di strumenti extraeuropei nel Dipartimento di Musicologia dell’Università della California. Nei ’60 nasce, grazie a Merriam ed altri, l’antropologia della musica che aveva lo scopo, più che a ricostruire i sistemi musicali del mondo in modo strettamente formali (tipi di scale e ritmi, regole compositive ecc.), di occuparsi della musica nella cultura, delle sue funzioni, del ruolo sociale dei musicisti, ei sistemi di trasmissione del sapere ecc. La divisione fra musicologi ed etnomusicologi non avveniva più sui prodotti musicali ma come questi interagivano con altri aspetti della cultura. In Francia vi erano studiosi di tendenze semiologiche che si battevano per una maggiore autonomia del musicale (erano impegnati a scoprire i meccanismi di funzionamento della comunicazione musicale nei tratti formali). Blacking si batté per la necessità di capire anche i tratti formali della musica nella più vasta dimensione culturale. In seguito ci fu una sintesi dei due pensieri con l’affermarsi dell’etnoscienza che indaga attraverso la terminologia e le concezioni locali cosa c’è dietro alle manifestazioni sonore. Il cognitivismo ripropone  con un’ottica nuova il tema della ricerca degli universali musicali. Lo studio della musica non più nella cultura ma come cultura è l’obiettivo di una nuova tendenza dell’antropologia  musicale.

Strumento musicale: usati in qualsiasi cultura musicale, anche in quelle in cui l’esecuzione musicale è prevalentemente vocale. Lo strumento musicale è qualsiasi oggetto in grado di produrre suoni se usato in contesto musicale. Lo sono le varie parti del corpo, utensili di uso quotidiano, elementi naturali e per l’accompagnamento del canto e della danza. L’etnomusicologia ha dato impulso  allo studio degli strumenti: si deve a Schs e ad Hornbostel la messa a punto di una delle migliori classificazioni basata sulla produzione della vibrazione sonora. Le quattro grandi famiglie da loro individuate sono: idiofoni, cordofoni, membranofoni ed aerofoni. Questa classificazione, se pur criticata per alcune incongruenze sulla famiglia degli idiofoni, è ancor oggi punto di riferimento per organologi e conservatori. A Schaeffner si devono le osservazioni sulle origini corporali degli oggetti sonori (per cui alla base di qualsiasi principio organologico ci sarebbe un gesto sonoro prodotto dal corpo umano) e quelle sull’importanza delle qualità sonore di materiali facilmente reperibili in natura. Gli strumenti musicali sono significativi per osservare ed interpretare diversi aspetti di una cultura. La musica strumentale, il canto e la danza  sono le articolazioni della vita musicale possibili in un gruppo. Repertori musicali, tecniche strumentali, accordature, metodi di apprendimento ecc. sono tasselli per la comprensione dei sistemi musicali.  Gli stili interpretativi sono connessi alle concezioni estetiche e agli atteggiamenti emozionali. Le tecniche di costruzione rivelano conoscenze spesso raffinate nel padroneggiare le qualità fisico-acustiche della materia anche in società poco evolute tecnologicamente. La foggia e le denominazioni possono suggerire  percorsi di diffusione e di contatti tra cultura più o meno lontane. Lo strumento conserva immutate le sue caratteristiche organologiche e il suo nome (spesso ad una stessa denominazione corrispondono strumenti diversissimi come nel caso del tambur, in alcune culture associato ad un membranofono, in altre ad un cordofono). La terminologia legata alle parti dello strumento o alla prassi esecutiva può essere rivelatrice di simbolismi antropomorfici o zoomorfici in cui si rispecchiano gerarchie sociali e sessuali o elementi mitologici (in Africa centrale e comunissimo trovare i ruoli della famiglia trasferiti nell’organizzazione di un insieme di tamburi o delle accordature degli strumenti a corde.

membranofoni: strumenti musicali in cui una membrana (spesso di pelle) è tesa su un risuonatore. Nei timpani questo risuonatore è un vaso chiuso alla base. Nei tamburi può essere concavo, una canna, un vaso (darabukke del Marocco) una cornice (deff del Marocco) aperti alle due estremità, con pelle singola o doppia. Possono essere a frizione (se un’asticella o una corda sono fissate al centro della pelle e vengono sfregate esternamente, come nel caso del putipù italiano, o internamente) o a percussione (dove la cassa può avere molte forme: cilindrica, conica, a clessidra, a calice ecc.). la membrana può essere usata
anche per modificare il timbro vocale o strumentale in alcuni aerofoni (flauto “di” della Cina) e idiofoni.

Idiofoni: strumenti non a fiato in cui il dispositivo sonoro non è suscettibile di tensione (come avviene per corde o membrane). Gli idiofoni possono essere: a concussione di elementi simili (come bastoni o cimbali), a percussione della parte vibrante con uno o più battenti (tamburi di legno, gong, xilofoni ecc.), a percussione della parte vibrante su una superficie (suolo, corpo umano ecc.), a scuotimento (sonagli, sistri ecc.), a raschio, a frizione, a pizzico (sanze, scacciapensieri e).

Cordofoni: strumenti musicali in cui una o più corde sono tese su un supporto  o cassa di risonanza. I cordofoni possono essere: archi musicali (una corda tesa su un supporto arcuato come il berimbau brasiliano), pluriarchi, arpe (corde tese tra un manico e una cassa di risonanza che formano un angolo tra loro), cetre (corde tese parallelamente al supporto a forma di bastone/tubo/scatola, l’ultimo come nel caso del pianoforte), liuti e vielle (corde tese tra u manico e una cassa di risonanza: il piano delle corde e dello strumento dono paralleli come nel caso del volino), arpa-liuto, arpa-cetra, lire (corde tese tra una cassa si risonanza e un manico sorretto da due bracci), cordofoni a tensione variabile.

Aerofoni: strumenti in cui l’aria  è il primario agente vibrante. Si dividono in: aria-ambiente (l’oggetto è costituito da una tavoletta, da un disco o da un tubo legati ad un filo che vengono fatti ruotare per mettere in vibrazione l’aria esterna), a fiato o ad aria immessa in un tubo o altro recipiente a cui appartengono flauti (strumenti in cui il flusso dell’aria  è indirizzato contro un bordo affilato) che possono essere di varia forma e avere diverse imboccature, avere diversi numeri di canne o meno, avere diversi tipi di insufflazione (nasale, boccale), e a cui appartengono gli strumenti ad ancia semplice(clarinetti, launeddas ecc.), doppia (oboi, zampogna italiana ecc.) o ad ancia labiale (corni,  trombe e conchiglie).

Estratto di “La cultura musicale come un mondo di musica” (in I mondi della musica. Le musiche del mondo), Titon e Slobin (pp.1-14):

la musica, seppur fenomeno universale, trae il suo significato dalla cultura, cioè dal modo di vita di un popolo, appreso e trasmesso da una generazione all’altra, che è ciò che consente all’individuo di comprendere le situazioni in cui si trova e di reagire adeguatamente. La cultura musicale indica il coinvolgimento complessivo di un gruppo nella musica: le idee le azioni, le istituzioni, gli oggetti. Le situazioni musicali e il concetto di musica significano cose differenti e comprendono varie attività per l’individuo e per la società. Non tutte le culture  musicali hanno una parole per indicare la musica: alcune hanno parole per indicare i tipi di canti ma non un termine generale per indicare la musica. Musica e rumore sono concetti che la ente elabora a proposito del suono: mentre il suono esiste come fenomeno indipendente da noi, la musica non è qualcosa di separato da noi, ma è costruita in modo umano come altri aspetti della cultura. Blacking ha definito la musica come “suono umanamente organizzato”. Infatti noi impariamo dagli altri quale sonorità sia musica e quale no: è la gente che decide cosa è musica. L’impatto emotivo della musica è conosciuto come l’affetto della musica, il suo potere di commuovere. L’esecuzione mette in azione il potere della musica. Sono le persone a contrassegnare le esecuzioni che hanno sempre una finalità e che sono decodificate dal pubblico e dagli esecutori durante il loro svolgimento. L’esecuzione si sviluppa sulla base di regole e procedure condivise che permettono ai musicisti di suonare insieme e di intendersi reciprocamente e con gli spettatori. Gli esecutori non discutono la maggior parte delle regole, le hanno assimilate ed accettate. Regole e procedure accettate fanno parte anche del comportamento del pubblico. L’analisi musicale ha il compito di trovare regole musicali: tonalità, motivo, ritmo metro, sezione e così via. L’esecuzione musicale, pur improvvisata, si serve delle regole nel suo svolgimento. Solo una musica con delle regole può esprimere emozioni, infatti se un ascoltatore non comprendere le regole non può capire le intenzioni del compositore e del musicista oppure la struttura della musica. L’esecuzione musicale è parte di una cultura perché le persone recano le tradizioni che costituiscono la cultura. La comunità sostiene la musica e ne influenza la direzione futura. Le esperienze musicali, le esecuzioni e le comunità cambiano nel tempo e nello spazio, hanno una storia che riflette i mutamenti nelle regole che governano la musica. Nelle società postindustriali, lo sviluppo tecnologico ha fatto sì che la musica non abbia bisogno di essere ascoltata alla presenza dell’esecutore e che sia un sottofondo abbastanza costante  nella vita di molte persone, ma i musicisti sono largamente assenti. Una cultura musicale si basa sulle persone stesse: è impossibile comprendere pienamente una struttura musicale senza conoscerne il perché culturale e musicale.

Idee sulla musica: riguardano la musica e il sistema di credenze (idee di base di una cultura musicale relativamente alla natura della società umana, all’arte e all’universo, idee che possono cambiare con il tempo in una stessa cultura), l’estetica della musica (ogni cultura ha una sua opinione sulle questioni estetiche musicali, la qualità del suono e la pratica esecutiva), i contesti della musica (quando e quanto spesso deve essere eseguita una musica), storia della musica (alcune culture istituzionalizzano il passato in musei e il futuro in fiere mondiali, altre si tramandano la conoscenza della storia della musica oralmente di generazione in generazione. In alcune culture musicali l’autorevolezza si associa all’essere un buon musicista, in altre bisogna essere dei buoni esecutori per essere degli storici rispettati. Nella maggior parte delle culture musicali la buona musica è legata alla bella musica e ha luogo nel contesto appropriato. Quando esistono  suddivisioni più piccole all’interno di una cultura musicale ci sono delle sottoculture musicali, alcune in contrapposizione con altre. La totalità delle dee musicali e delle esecuzioni è suddivisa in modo ineguale tra le persone di una qualsiasi cultura musicale. Ogni persona fa diverse esperienze musicali a seconda di età e sesso. Anche i gruppi raziali, etnici e di lavoro cantano un loro repertorio specifico e ad ognuno potrebbe essere assegnato il proprio ruolo musicale specifico. Tutti questi fattori hanno a che fare con l’organizzazione sociale della cultura musicale e sono fondati sulle idee proprie della cultura musicale riguardo la musica. A volte la suddivisione dei comportamenti musicale è simile alle suddivisioni sociali all’interno del gruppo e rafforza le usuali attività culturali. Qualche volta però la musica va contro le inclinazioni culturali più generali della popolazione, specialmente durante i periodi festivi o in momenti importanti del ciclo della vita (iniziazioni, matrimoni ecc.). quando fanno musica in queste occasioni, pe persone ai margini della cultura guadagnano importanza: molte culture musicali assegnano uno status sociale basso ai musicisti, nonostante riconoscano anche il loro potere. Nell’organizzazione sociale musicale sono così importanti lo status e il ruolo: il prestigio di chi fa musica e i ruoli assegnati alle persone nella cultura musicale.

Un repertorio è un insieme di esibizioni disponibili e il repertorio di una cultura musicale è quello che la maggior parte delle persone ritiene la musica stessa. Il repertorio può essere diviso in:

a)      Stili: lo stile include tutto ciò che è relativo all’organizzazione del suono musicale in sé: elementi dell’intonazione (scala, modo, melodia, armonia, sistemi di accordatura), del temo (ritmi, metri), del timbro (qualità della voce, colore del suono strumentale) e dell’intensità di suono (forte e piano), tutti dipendenti dall’estetica della cultura musicale. Lo stile e l’estetica creano una sonorità riconoscibile che un gruppo interpreta come propria. Canti che possono sembrare molto simili a chi non fa parte di una cultura musicale non lo sono per chi fa parte, invece, di quella cultura, che e distingue i tratti

b)      Generi: i generi sono le unità definite e standard del repertorio (come il canto nelle sue varie suddivisioni: ninna nanna, canti di nozze ecc.). la maggior parte delle culture musicali possiede una gran quantità di generi, ma le definizioni non corrispondono sempre a quelle di altre culture musicali

c)       Testi: le parole di un canto sono il suo testo. Talvolta ad un singolo testo sono associate diverse melodie, altre volte una singola melodia può accompagnare diversi testi. Il canto (linguaggio e musica insieme) è un’unità riconoscibile dotata in sé di potere emotivo.

d)      Composizione: è anche vincolar all’organizzazione sociale: in una cultura musicale esiste una classe specifica di compositori o meno, inoltre è correlata alle idee sulla musica (alcune culture dividono la musica in canti composti dagli uomini e canti dati agli uomini da divinità, da animali e da altri compositori non umani.

e)      Trasmissione: in alcune culture avviene attraverso il rapporto allievo-maestro che durano per tutta una vita: il maestro diventa un genitore, insegna i valori e le norme etiche, oltre alla musica. In questi casi la musica diventa un modo di vivere e i discenti costituiscono dei devoti della musica che il loro maestro rappresenta. In altre culture musicale non c’è un’istruzione formale e l’aspirante musicista deve raccogliere qua e là quanto gli serve, attraverso l’osservazione e l’ascolto. Se un repertorio viene trasmesso attraverso l’imitazione e l’esempio e viene eseguito a memoria ci si trova in una tradizione orale. La musica della tradizione orale mostra maggiore variazione nel tempo e nello spazio rispetto alla musica legata ad una partitura definitiva.

f)       Movimento: suonare include un’attività fisica finalizzata alla produzione del suono ma genera anche dei movimenti culturalmente definiti, inseparabili dal suono della musica, quindi il movimento è parte essenziale dell’esecuzione.

La cultura materiale della musica riguarda le cose fisiche e tangibili i musica: gli strumenti e la tecnologia di una cultura  che possono rivelarci la storia e il modo di vivere del gruppo. La ricerca sulla cultura materiale musicale aiuta a capire la cultura musicale stessa. Quindi ci si basa sugli strumenti per ricavare importanti informazioni sulle culture musicali del passato e sul loro sviluppo. Per la ricerca si studiano gli strumenti che si sono conservati nel tempo o quelli raffigurati nelle opere artistiche o di cui si parla in documenti scritti e altre fonti: grazie a tutti questi documenti e rimanenze si possono esplorare le trasformazioni della musica. Anche gli spartiti fanno parte della cultura materiale. La ricerca mostra reciproche influenze fra le fonti orali e scritte  in diverse parti del mondo le versioni a stampa limitano la varietà ma paradossalmente stimolano le persone a creare brani nuovi e diversi. La capacità di leggere la notazione musicale ha effetti sui musicisti e sulla cultura musicale nel suo complesso. Altro aspetto importante della cultura materiale è l’impatto dei media elettronici che hanno influenzato le culture musicali di tutto il mondo, moderne o meno.

All’interno di qualsiasi civiltà circolano tre tipi di musica: quella così antica da essere riconosciuta come propria, di cui nessuno mette in dubbio (o neanche conosce) le origini; quella di una generazione antecedente e quella corrente o più recente.  Queste musiche recenti possono essere locali o importante o entrambe le cose. Quindi le culture musicali sono più dinamiche che statiche, cambiano costantemente in risposta a pressioni interne ed esterne. Le persone di una stessa cultura musicale non hanno bisogno di condividere la stessa lingua, nazionalità od origini etniche o di condividere le stesse idee sulla musica. Quando le culture musicali cambiano sono sottoposte a cambiamenti di regole dell’esecuzione musicale, dell’estetica, dell’interpretazione e del significato: ogni generazione rielabora la storia della musica, che si adegua ai desideri espressivi ed emotivi dell’uomo. L’etnocentrismo non ha spazio nello studio delle musiche del mondo che si differenziano grazie all’adattamento di una popolazione alla vita sul pianeta Terra.

Estratto da “Grammatica della musica etnica”, Agamennone e Facci (pp. 11-62, 79-111, 145-175, 195-200, 235-237):

secondo J.J. Rousseau (1718) la musica è l’arte di combinare i suoni in modo gradevole all’orecchio; in alcuni dizionari o enciclopedie la definizione di musica appare come arte di combinare  i suoni secondo determinate regole. Ma le definizioni più o meno antiche della musica, vista come per pochi eletti, sono frutto di un concetto evolutosi per secoli a partire dal medioevo, quando la musica assume la forma di scienza autonoma dei suoni (distinguendo fra teorici della musica, i veri artisti, e gli esecutori materiali, cioè distinguendo fra teoria e pratica musicale) rompendo i vincoli con l’espressività della parola e del gesto presenti nel mondo greco e romano. Ciò ha portato alla distinzione fra musicale e non-musicale e a considerazioni di carattere solamente estetico. È il contatto e lo studio delle musiche folkloriche europee e quelle extraeuropee che ha messo in crisi il concetto di musica. Nel 1884 Ellis e i suoi studi sulle varie scale delle varie nazioni danno vita agli studi etnomusicologici. Egli affermò che la scala non è unica e non è naturale, e neppure si fonda su leggi  della costituzione del suono musicale, ma che esistono scale molto diversificate, artificiali e soggette a variazioni capricciose. Gli studi etnomusicologici sono la cronaca del passaggio da una definizione a  priori di musica (basata sulle concezioni occidentali) all’elaborazione di nuovi concetti e categorie che reinterpretano e spiegano su basi scientifiche le forme e i comportamenti musicali delle  diverse società. In realtà le prime “crisi” della musica occidentale si hanno con la rivoluzione atonale e dodecafoica di Schonberg, nel crescente utilizzo della voce e linguaggio del corpo e nel crescente rifiuto di strette dipendenze dalla partitura scritta. Pian piano ci si rende conto che non esiste la musica ma le musiche. La riformulazione della definizione di musica vede la necessità di stabilire quali fenomeni delle varie società rientrano in questa definizione, tenendo così conto di tutte quelle manifestazioni  che sembrano mantenere la stessa cultura musicale indipendentemente dal contesto culturale e tenendo conto delle diverse concezioni che nelle varie società sono alla base della produzione di suono organizzato, visto che in molte culture non esiste il concetto occidentale di “musica”. In ambito etnomusicologico la musica di una certa cultura è l’insieme delle forme e dei comportamenti  che quella cultura ritiene di ordine musicale.

Suono: può essere generato da un solo tipo di moto, quello di un corpo vibrante che provoca onde di rarefazione-compressione che l’aria trasmette al nostro orecchio per poi arrivare al cervello sotto impulso di stimoli nervosi. Una vibrazione è un movimento di qualcosa di solido, acquoso o gassoso nel corso del quale una parte mobile si sposta sempre restando in prossimità di un punto fisso. Il periodo è la durata in secondi di una vibrazione isolata: la distanza tra i due punti dà la lunghezza d’onda. La frequenza è il numero di vibrazioni che l’onda compie nell’unità di tempo (si misura in hertz) ed è inversamente proporzionale al periodo. L’altezza di un suono musicale dipende dalla sua frequenza. L’orecchio umano percepisce solo dalle 16 vibrazione alle 25 mila al secondo. L’intensità di un suono è data dall’ampiezza dell’onda sonora, cioè dalla distanza fra il centro della cresta e la base dell’onda: maggiore è la distanza, più intenso/forte è il suono prodotto. I suoni puri sono quasi mai rilevabili in natura, spesso infatti i suoni sono il frutto della composizione di più fenomeni periodici. Una nota di uno strumento non sarà puro perché composto sia dal suono fondamentale (la nota) ma anche da una serie di alte frequenze che vengono chiamate armoniche e che corrispondono a multipli interi della fondamentale. Gli armonici determinano il timbro di una nota dando al suono un colore particolare, ciò che permette di riconoscere il suono di un pianoforte o di un clarinetto: infatti è la diversa intensità dei vari armonici presenti nelle note reali che essi producono. Ciò che caratterizza il timbro di uno strumento musicale sono anche le particolarità di fattura del singolo oggetto, cioè le impurità e le modalità di esecuzione (quindi il tipo di stimolo che produce il suono: martelletto, dito, archetto ecc.).

Ciò che conferisce musicalità ai suoni è l’intenzione (valutata a seconda della temporalità attribuita ai suoni, all’esistenza di un corpus di regole di organizzazione dei suoni, al progetto dell’azione musicale, alle funzioni della produzione musicale) ad agire in modo musicale, per cui la differenza fra suono e rumore può variare facilmente da cultura a cultura e nella stessa cultura in epoche diverse. L’organologia studia gli strumenti musicali, l’antropologia musicale studia gli stili e le modalità di esecuzione e le funzioni della musica.

La caratteristica fondamentale della musica va ricercata non tanto in ciò che diversifica tra loro i suoni, ma in ciò che li assimila, non tanto nei loro parametri spaziali (altezza, timbro, intensità) quanto nella loro comune obbedienza ad un’unica e specifica dimensione temporale. È soprattutto il modo in cui i suoni si dispongono nel tempo e i loro rapporti relativi di durata a determinare la musicalità di un evento. Quindi la musica si materializza in una temporalità che la distingue da altre manifestazioni dell’espressività umana. La rappresentazione del tempo musicale è di tipo percettivo: un parte di tempo reale diventa musicale se ci si sincronizza intenzionalmente in un sistema relativo di durate (ritmo) immettendosi in una dimensione ciclica che fa vivere i diversi momenti come unità ripetibili di tempo presente. Ciò spiega la consistenza che acquistano anche i silenzi musicali anche come valori di pause.

Nel lessico della musica occidentale il termine “tempo” è impiegato:

–          Per indicare il movimento cui si attiene l’esecuzione quindi il rapporto fra tempo reale e tempo musicale. Può avere indicazione di tipo relativo (allegro ma non troppo ecc.) o di tipo assoluto (prendendo come riferimento la durata di un unità di valore)

–          Come sinonimo di ritmo (es: tempo ternario)

–          Come sinonimo di metro (es: tempo di ¾)

–          Come sinonimo di unità di battuta

Ma la sola accezione di tempo che possa essere in considerazione in una prospettiva transculturale etnomusicologica è la prima, quella di indice di movimento di esecuzione, ovvero di durata della pulsazione di riferimento esplicita o implicita di un brano musicale. Per trascrivere la velocità di una musica di tradizione è molto più comoda quella in valori cronometrici che quella metronomica, tipica di quella occidentale. In tutte le culture del mondo alla base dei diversi schemi (metrici, accentuali ecc.) vi è il riferimento ad una pulsazione regolare. Ma vi sono repertori in varie parti del mondo in cui l’organizzazione elle durate prescinde dal riferimento ad una pulsazione. In questi casi è la fora stessa del brano ad imporre una struttura temporale all’intera esecuzione. La dimensione temporale è spesso inscindibile alle circostanze in cui l’evento si produce come nel caso dei “canti di lavoro”, in cui la ripetitività dei gesti lavorativi è sincronizzata al tempo relativo della musica per alleviare la fatica. In questi canti musicali la temporalità musicale è risultato di un compromesso fra tempo reale e tempo ciclico.

Platone applicò il termine “ritmo” alla musica per indicarne il movimento ordinato. Nel linguaggio corrente il termine ritmo indica la dimensione temporale dei suoni musicali. Ma per parlare di ritmo vuol dire che nell’organizzazione delle durate musicali in esame bisogna rilevare ricorrenze costanti. Infatti esistono musiche prive di tali ricorrenze periodiche, per le quali si parlerà di “ritmo libero” che indica un ritmo che pur rispondendo ad una certa logica temporale musicale, è svincolato da effettivi condizionamenti ritmici. Nella sua eccezione più generale il ritmo implica l’esistenza di suoni di diversa durata e la loro organizzazione in successioni periodiche all’interno di un tempo determinato. La periodicità è il modo in cui un certo evento si ripete nel tempo. Se l’intervallo di ricorrenza è costante si parla di periodicità isocrona. L’accento musicale è uno stimolo significativo per la coscienza: per quanto possa avere una consistenza fisica l’accento ha infatti un rilievo prevalentemente mentale, psicologico. Un’accentazione può essere prodotta anche da opposizioni timbriche e di altezza. Gli accenti di intensità e quelli tonici sono gli stimoli significativi più comuni del ritmo musicale che può essere definito come il modo in cui uno o più battiti inaccentati si raggruppano rispetto ad uno accentato. Il “metro” è ciò che definisce i cicli periodici e le gerarchie nell’organizzazione delle durate (ad es. in paraparaparapara stabilirà se ‘accento è su para o su rapa). Il metro indica il sistema di riferimento fornito da una serie di pulsazioni isocrone soggiacenti all’organizzazione ritmica di un brano musicale in grado di determinare in essa cicli periodici. Il metro può essere costituito dal ripetersi di una pulsazione isocrona o da sequenze di due o tre pulsazioni o da loro multipli o somme. Il sistema metrico può variare da una cultura all’altra o all’interno di una stessa in periodi diversi. Quindi il metro è uno schema mentale che condiziona la percezione ritmica degli esecutori e/o degli ascoltatori di un dato evento musicale perché sia rilevabile è necessario che costoro lo esplicitino in qualche modo o che si sovrappongano più eventi ritmico-musicali. La concezione occidentale del metro si basa su un accento di posizione della prima pulsazione (ma nella ritmica araba, per esempio, il metro implicito coincide con la semplice pulsazione isocrona più che con la sequenza ternaria, quindi la posizione dell’accento riguarda la sola organizzazione ritmica). In un brano musicale a ritmo determinato le diverse durate dei suoni sono sempre proporzionali e misurabili sulla base dell’unità metrica, quindi sono sempre multipli o sottomultipli della pulsazione di riferimento in qualsiasi cultura musicale. Nel sistema di grafia della musica occidentale la durata dei suoni viene riprodotta attraverso le specifiche figure che assumono le note sul pentagramma. Per esprimere valori la cui durata non è contemplata fra le figure occidentali di base si adottano segni come il punto (che aumenta il valore della nota della metà) e la legatura di valore (che collega fra loro due o più note). Con i secoli nella musica occidentale si è affermato un concetto di metro che definisce la serie di pulsazioni  di riferimento sulla base di una data ricorrenza di accenti. Il metro trova espressione nella misura (o battuta), che nella notazione è indicata da barre verticali. La misura è enunciabile con una frazione. Così le misure forniscono l’intelaiatura metrica di un brano musicale. Il primo dei tempi che contiene la misura è sempre forte e quindi va inteso come accentato. In occidente il metro è concepito come un modello ritmico implicito in rapporto a cui il ritmo  espresso nell’esecuzione musicale diventa significativo. La concezione ritmica del metro  dei musicisti occidentali è assente in mole altre culture musicali. Nelle varie culture l’organizzazione assume tre forme distinte:

–          Forma numerica: consiste nel contare e ripetere continuamente un certo numero di unità temporali indipendentemente dall’accento o dal metro e ce secondo Sachs è tipica dei sistemi musicali dell’Estremo Oriente.

–          Forma basata su accenti reali o appena accennati: raggruppa una serie di cadenze separate da intervalli uguali accentuando la prima di due o più di esse e che caratterizza la maggio parte della musica occidentale.

–          Forma metrico-aggiuntiva: è la somma di quantità differenti di unità di tempo a cui Sachs riconduce i sistemi dell’Africa bantu e della musica balcanica.

Di queste forme solo la seconda è caratterizzata da una sistematica presenza dell’accento nella struttura metrica, negli altri casi l’accento è una caratteristica dell’organizzazione ritmica.

Spesso in Asia (in particolare nel sud est asiatico) esistono modelli ritmici costruiti su cicli che hanno funzione uguale a quella del metro nella musica occidentale. Spesso nelle culture che usano questo sistema la struttura ritmica binaria funge da implacatura per l’architettura ritmica. Nel 1949 Kunst conia il termine “colotomico” per descrivere il sistema di pause e colpi con cui alcuni strumenti (come i gong) sostenfono la struttura melodica. Le unità clotomiche sono gerarchiche (alcuni beat sono più importanti degli altri).

In area balcanica (Bulgaria, Ungheria, Romania, Turchia, Grecia, Albania, paesi dell’ex Jugoslavia) invece (contrariamente che in India) la musica è caratterizzata dall’asimmetria (tanto che il ritmo è definito aksak, zoppo) dove cellule binarie e ternarie sono difficilmente iscrivibili nelle misure simmetriche occidentali.

Scala: la musica viene scritta solo nella musica colta occidentale e in alcune musiche orientali (Cina, Tibet, Giava). È dal medioevo che in Europa nasce un sistema di notazione delle altezze che  si è stabilizzato nel pentagramma odierno. L’uso di chiavi dà un riferimento per l’altezza relativa dei suoni (quelle più utilizzate sono la chiave di violino cioè di sol, e quella di basso cioè di fa). L’intervallo è il rapporto di frequenza fra due suono percepiti come aventi alteza diversa. In occidente tra due suoni contigui si avrà un intervallo di 2° (es: intervallo fra do e re), tra due non contigui si conta il numero dei passi compiuti per giungere da un suono all’altro includendo i suoni di partenza e di arrivo). L’intervallo più piccolo della teoria musicale occidentale p il semitono (fra mi-fa e si-do) mentre il tono è l’intervallo che c’è fra i suoni rimanenti. Nella teoria occidentale ai suoni che si trovano ad intervallo di ottava si dà lo stesso nome. L’ottava, spiegabile con ragioni fisico-acustiche, l’ottava infatti è il primo intervallo della serie di armonici, le diverse componenti di un suono che concorrono a determinare il timbro.  Due suoni ad intervallo di ottava sono quindi in rapporto di frequenza 2/q. il sistema di altezze occidentale comprende anche dei suoni alterati (diesis e bemolle) che assieme ai sette suoni precedenti (se si tiene conto che la frequenza alcuni diesis equivale a quelle di alcuni bemolli) vanno a formare 12 altezze, la cui scala è chiamata cromatica. La scala definita da Jean Jacques Nattiez consiste in una successione di intervalli (più che di altezze assolute. Infatti ci sono culture musicali che non hanno diapason, cioè un’altezza di riferimento comune, per cui la scala è definita solo da una successione codificata di intervalli), determina un certo numero di altezze (dette gradi, su cui vengono accordati gli strumenti), è priva di funzioni privilegiate (mentre nella scala modale si hanno organizzazioni gerarchiche) e tutto questo all’interno di un corpus dato (di musiche, non su esempi isolati). Le scale più importanti in occidente sono state quella pitagorica (basata sulla successione di intervalli di quinta), la scala zarliniana (basata su intervalli ricavati dalla serie dei rapporti semplici) e la scala temperata proposta nel 1700 da Werckmeister (in cui l’intervalli di ottava è diviso in 12 parti uguali). Quindi nel settecento le scale principali sono quella diatonica eptatonica e quella cromatica con 12 semitoni equidistanti. Ellis sostenne la non naturalità dei principi che le culture mondiali ponevano alla base dei propri sistemi scalari e (considerato padre dell’etnomusicologia) effettuò molte misurazioni su scale di diverse culture de mondo concludendo che la scala musicale non è unica né naturale né necessariamente fondata su leggi di costituzione del suono musicale, ma molto mutevole ed artificiale. Per questo Ellis elaborò il sistema di misurazione degli intervalli basato sui cents, dividendo l’intervallo di semitono in 100 parti dette cents: quindi in un intervallo di ottava ci sono 1200 cents. Questo sistema permette la misurazione e la comparazione di diversi sistemi scalari del mondo (seppure l’orecchio umano arriva a distinguere al massimo intervalli di 4-5 cents, non arrivando mai alla precisione millesimare proposta da Ellis) ed è il sistema ancora più usato per la misurazione degli intervalli. Purtroppo il sistema è stato usato anche per tentare di individuare criteri universali in una prospettiva evoluzionistica identificando stadi successivi di complessità, ciò che fecero i musicologi della scuola di Berlino (musicologia comparata): gli studiosi di questa scuola hanno postulato l’universalità di alcuni intervalli, soprattutto dell’ottava e della quinta. L’intervallo di ottava è espresso da un rapporto di frequenza 2/1 ed è il rapporto frazionario più semplice possibile su cui si fonda la maggior parte delle culture per determinare l’ambito in cui formare la propria scala. Ci sono culture che non usano melodie che si spingono fino a questo intervallo. Ci sono culture in cui l’intervallo di ottava invece è più ampio dei 1200 cents del rapporto 2/1. Altro intervallo usato da molte culture è quello di quinta espresso dal rapporto frazionario 3/2. Lo troviamo nella scala pitagorica che però risulta essere leggermente più ampia della quinta temperata di 700 cents, questione diventata cruciale con lo sviluppo di pratiche polifoniche in occidente a causa della non consonanza degli intervalli verticali di terza e di sesta ottenuti da questa scala: la soluzione finale trovata è l’adozione della scala temperata. La scala pitagorica è costruita moltiplicando il numero di vibrazioni di una nota/suono per 3/2, successione che si estende a più ottave ed è necessario dividere il risultato ottenuto per 2/1 (1 ottava) una o più volte per ottenere la successione di intervalli che si trovino tutti nella stessa ottava. Anche in Cina, fin dal IV secolo a.C. fu elaborato un sistema scalare basato sulla sovrapposizione di intervalli di quinta: è il sistema dei lvlv, ottenuti moltiplicando per 3/2 e poi dividento per 4/3 (intervallo di quarta) per ottenere suoni di una quinta superiore e poi una quarta inferiore. Una particolare scala ottenuta con il ciclo delle quinte è quella pentatonica ricavata dai primi cinque suoni di questa successione (es: do sol re la mi che riportati in una stessa ottava si dispongono nella scala do re mi sol la). Fra le scale pentatoniche anemitoniche (senza intervalli di semitono) più conosciute c’è quella cinese: ai cinque suoni principali se ne aggiungono 2 per gli abbellimenti e per punti di passaggio. Al mondo ci sono varie scale che non rispettano i principi del ciclo delle quinte: fra queste vi sono le scale equalizzate, scale in cui i 7 o 5 suoni sono equidistanti all’intervallo di ottava. Esistono anche sistemi scalari bitonici, tritonici e tetratonici ma spesso si propongono come base di strutture più ampie. Fra le scale che usano intervalli più piccoli del semitono c’è quella della musica araba classica che utilizza intervalli di ¼ e ¾ di tono e il suo sistema teorico si basa sulla suddivisione dell’ottava in 24 parti (la misurazione degli intervalli si fa sulla corda del liuto ud). Diverse società hanno scale con intervali diversi ma anche diverse concettualizzazioni dei propri sistemi scalari (Blacking riporta l’esempio di due melodie da lui come occidentale percepite come diverse ma che i Venda del Sudafrica definiscono come la stessa in quanto appartenenti ad una medesima struttura profonda). I principi di costruzione melodica sono successioni organizzate nel tempo di suoni della scala. Blacking afferma che non è possibile descrivere ed analizzare un fenomeno musicale senza comprendere il sistema culturale in cui quella data musica viene eseguita ed il sistema cognitivo che la ha prodotta. Nel campo delle ipotesi etiche il ricercatore sulla base dei documenti sonori opera delle formalizzazioni esterne alla cultura musicale considerata. In tempi recenti gli etnomusicologi hanno proposto uno schema scalare neutro, il modulo scalare o gamut: tutti i gradi della scala e gli intervalli individuati in un certo corpus musicale sono riportati su un pentagramma, spesso nell’ordine in cui compaiono, senza fare alcuna gerarchia fra suoni. Il ricercatore si limita ad indicare la frequenza statistica con cui certi suoni ricorrono rispetto ad altri. La rappresentazione del modulo scalare tenta di risolvere il problema di determinare quale sia la percezione e la concettualizzazione che ciascuna fa del continuum di frequenze ma il passo successivo sta nel confrontare  questo inventario con la percezione che ha la cultura musicale di questo inventario. Da puro inventario di suoni il parametro altezza poi si ordina in successioni  chiamate melodie ed in scale con gerarchie di suoni prestabilite al loro interno cioè i sistemi modali.

Modalità e tonalità: possiamo considerare la modalità come un sistema complesso di organizzazione ed elaborazione delle altezze che, pur manifestando alcuni elementi di carattere generale, presenta tratti specifici e distinti nelle diverse tradizioni musicali. Se si prende in esame una cultura musicale intesa come complesso omogeneo il termine modalità può apparire come sinonimo di sistema modale. Queste denominazioni definiscono le norme e le consuetudini che orientano l’elaborazione e l’organizzazione delle altezze nell’ambito di tradizioni culturali specifiche. Il termine modalità indica una cornice ampia di possibilità combinatorie: all’interno di cui possono essere comprese molte entità circoscritte ed autonome chiamate modi (che quindi sono coerenti col sistema modale come sistema complesso di modi specifici). la modalità si può manifestare in una melodia solistica e con la sovrapposizione di parti distinte eseguite simultaneamente e combinate secondo norme di interdipendenza variabile. La modalità presenta alcuni connotati esaminati separati secondo due prospettive: evidenziare i tratti di valenza generale riscontrabili in senso trans-culturale ed individuare i tratti specifici che differenziano i sistemi modali nell’ambito di tradizioni musicali peculiari. Nei sistemi modali è presente una connotazione scalare particolare che informa tutto il sistema chiamata scala generale: è uno schema di riferimento che comprende tutte le altezze disponibili in un sistema modale definito disposte su gradi e secondo intervalli determinati. La scala generale è una sorta di inventario teorico di tutti i suoni utilizzabili senza indicazione di gerarchie o preminenze e rappresenta tutti gli intervalli possibili sia come relazioni differenziali minime di frequenza sia come relazioni di combinazioni. Non è un tratto specifico ed esclusivo dei modi (considerati come espressioni parziali e peculiari) pur se ne è elemento costitutivo. In alcune culture musicali la scala generale può presentarsi in una configurazione doppia, soprattutto nei sistemi musicali caratterizzati da una netta divaricazione binaria (una sorta di duplicazione della scala generale). Il termine scala generale è pertinente solo nella valutazione dei singoli sistemi musicali soprattutto in opposizione alle specifiche scale modali: in termine transculturale si usa il termine gamut. Infine in alcune culture musicali è possibile rinvenire un livello intermedio di definizione che conduce alla formazione delle scale modali specifiche.

Una scala modale consiste in una successione di altezze ed intervalli specifici nei Modi intesi come complessi peculiari ed autonomi. Altezze ed intervalli presenti nelle diverse scale modali sono compresi nella scala generale di un sistema modale: modi dissimili quindi hanno generalmente scale modali diverse con gradi ed intervalli differenti. Il numero delle scale modali dipende dal numero di modi riconoscibili come entità autonome in un certo sistema modale. In alcune culture si possono trovare molte famiglie  modali, cioè raggruppamenti di modi con scala modale e caratteristiche simili come nelle tradizioni indù e turco-arabe. Nella cornice di un modo inteso come complesso peculiare ed autonomo, una o più altezze rappresentate nella relativa scala modale possono acquisire una prevalenza preminenza sulle altre diventando il riferimento centrale intorno a cui ruota l’elaborazione musicale propria di un modo determinato: il suono che è il fulcro di un modo si chiama, in etnomusicologia, centro tonale che può essere collocato in posizioni diverse nelle scale e nei Modi specifici. spesso il centro tonale rappresenta il fulcro sonoro di maggior rilievo cioè è il centro tonale di sistema. Le melodie centriche (definite da Sachs) costituiscono strutture melodiche fondate su un centro tonale che si caratterizza per la sua occorrenza preponderante. Al centro tonale inteso come luogo centrale dell’elaborazione musicale si possono affiancare suoni di peso inferiori cui sono attribuite funzioni particolari. Le funzioni modali possono essere a carico del centro tonale e degli altri suoni preminenti. Le funzioni più importanti sono: occorrenza preponderante (suoni più espressi o più lungamente tenuti), posizione iniziale, posizione finale nelle sezioni di un brano musicale o nell’intero brano, posizione ornamentale o di passaggio, posizione più acuta, posizione più grave, posizione più forte nella struttura fraseologica ritmico-melodica. Nettl ha sostenuto che un modo è il percorso attraverso cui le altezze di una scala sono utilizzate in una composizione. È un processo durante e mediante cui alcuni elementi grammaticali sono elaborati in una dimensione estesa e dinamica che coincide con l’invenzione musicale e l’esecuzione.  Per favorire questo processo di elaborazione quasi tutti i sistemi modali presentano un repertorio di formule melodiche variamente associate ai modi specifici. in ogni sistema modale le formule melodiche proprie di un modo mostrano necessariamente un profilo coerente con i gradi e gli intervalli presenti nella scala modale relativa e risultano caratterizzate dalla sensibile prevalenza del centro tonale dei suoni gerarchicamente dominanti. La fisionomia di queste formule melodiche può rivelare tratti diversi: in alcune culture si riscontrano solo brevissimi aggregati melodici, in altre le formule melodiche sono più nette. L’esecuzione avviene prevalentemente in maniera estemporanea secondo le coordinate della mentalità e tradizione orale: non risultano in uso testi destinati alla lettura nel corso dell’esecuzione. Nel sistema arabo, secondo l’interpretazione di Touma, il nucleo modale non costituisce una vera e propria formula melodica con un assetto riconoscibile ma come un ridotto segmento scalare, prevalentemente tetracordale, che assume fisionomia melodica soprattutto nei suoi intervalli tipici e nelle altezze che li delimitano, piuttosto che in un profilo definito e in motivi chiaramente delineati. I nuclei modali specifici infatti sono caratterizzati da altezze ed intervalli diversi, coincidendo con segmenti diversi della scala modale. Nel sistema modale arabo, quindi, l’esecuzione e l’elaborazione melodica si configurano come una sorta di ricamo nella trama dei nuclei modali. Per questo nella tradizione araba non è molto diffusa la presenza di brani con una denominazione definita. Nella tradizione persiana l’esecuzione e l’elaborazione melodica assumono connotazioni diverse. La forma musicale più importante, il radif, è la successione in cui sono eseguite ed elaborate le formule melodiche tipiche di un modo. Queste formule melodiche (collettivamente chiamate gusheh) sono molte e di diversa estensione, spesso non misurate e in ritmo libero e apprese oralmente. Nelle musiche dell’Asia estremo orientale le formule melodiche modali sono più stabili. Hood ha introdotto il termine formule cadenzali per definire i motivi melodici basilari in uso nella modalità giavanese. La loro elaborazione consiste nella combinazione di formule cadenzali diverse per la realizzazione delle melodie fisse (sequenze melodiche definite e stabili designate da un dome preciso che le distingue le une dalle altre). La modalità giavanese ha un repertorio di pezzi compiuti che trova l’elemento connotante ogni brano nelle melodie fisse. La consapevolezza di un influsso della musica sui sentimenti e delle relazione fra le forme e i tratti della musica ed entità o eventi esterni ad essa è forse penetrata nell’occidente latino con eredità greca ed è rimasta sottotraccia anche nell’estetica della musica tonale. Nelle culture non euro-colte questa combinazione è elemento irrinunciabile. L’associazione di modi determinati con situazioni calendariali e climatiche può assumere particolare rilievo e molto frequente è l’associazione modalità-stati emozionali.

Riepilogo: l’associazione fra modalità e monodia non sembra fondata: se è vero che gran parte delle musiche modali hanno prevalenza assoluto di una sola linea melodica su parti di sostegno ritmico e/o di bordone, non si può trascurare come la polifonia europea del 1400-1500 riveli un assetto modale (pur nella sovrapposizione di parti distinte e di uguale peso melodico). In molte espressioni polivocali folkloriche europee ci sono combinazioni di voci con forte impianto modale, mentre le musiche dell’Asia orientale si basano sull’esecuzione simultanea di formule melodiche di natura modale, stratificate su registri e ritmi diversi.  In molta musica dell’Estremo Oriente è frequente il riferimento ad un’unica melodia da parte di diversi strumenti (come le parti di flauto ed oboe nell’orchestra del gagaku, dove i due strumenti eseguono la stessa melodia ma, in alcuni casi, uno tra loro produce brevi variazioni ornamentali): questo sistema si dice eterofonia definita da Malm una musica a più parti in cui ogni parte è ritmicamente differente ma in cui la differenza è dovuta a variazioni simultanee della stessa melodia. Sachs sostiene che la definizione “variazione simultanea” sia meno ambigua del termine eterofonia. Un diverso tipo di polifonia orchestrale è messo in atto negli insiemi di gong dell’Asia sud-orientale: qui, nelle orchestre gamelan, le diverse parti sono affidate a metallofoni e gong di diversa dimensione e sono contraddistinte da una maggiore o minore densità ritmica. Per questo tipo di tecnica polifonica Hood propone il termine stratificazione.

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